Andrìa Pili per http://contropiano.org/
Nel mese d’ottobre la Sardegna sarà coinvolta nella Trident Juncture 2015, l’operazione NATO volta a testare le unità militari atlantiste nella prospettiva di nuovi conflitti. Queste esercitazioni, nell’isola al centro del Mediterraneo occidentale, sono l’ennesimo sopruso inflitto ad un popolo che soffre da circa mezzo secolo la presenza di tre poligoni (tra cui il più grande d’Europa, 13400 ha, Quirra, ed il più grande della Repubblica a Teulada, 7200 ha) oltre che di oltre i 3/5 delle servitù militari italiane. Oltre a questo, sono anche un sonoro schiaffo ad una comunità che da oltre un anno ha assunto una consapevolezza maggiore del problema militarista. Sensibilità e rabbia mai avute in precedenza il cui detonatore fu l’incendio di 32 ettari di macchia entro il poligono di Capo Frasca ed il cui campo propagatore fu la crisi economica, con conseguente progressiva sfiducia verso i partiti tradizionali, aggravante una condizione sociale difficile derivante da una storica oppressione di tipo coloniale.
La Sardegna può essere definita una nazionalità storica, la cui oppressione politica, sociale ed economica è sempre andata di pari passo con la sua riduzione ad oggetto per le esigenze militari della potenza imperiale o imperialistica di turno che ha visto l’isola come un grande avamposto nel Mediterraneo. Solo sotto lo Stato italiano- probabilmente perché tale dominazione è coincisa con l’affermazione passiva della modernizzazione e della società di massa- questo elemento costante nei secoli ha assunto un carattere ideologico molto forte, il quale è divenuto centrale nella mentalità del sardo oppresso, colonizzato. Già alle scuole elementari i sardi apprendono del “tributo di sangue” versato dalla Brigata Sassari durante la Grande Guerra, come da esso discenderebbe un legame indissolubile con l’Italia così come un elemento di unità per gli stessi sardi- che leggenda vuole pocos, locos y mal unidos- grazie al quale si sarebbe creato il Partito Sardo d’Azione, l’autonomismo, rendendo quindi possibile una ridefinizione del rapporto con lo Stato centrale- nella sua fase repubblicana- ove la “specialità regionale” è posta in maniera armonica con l’appartenenza alla “grande nazione italiana”, lontano da pericolose e immorali spinte “separatiste”. Entro questa identità subalterna, il sardo colonizzato non solo è orgoglioso del “suo” reggimento etnico entro l’Esercito Italiano ma ritiene di poter convivere con i siti militari presenti nella sua terra; anzi, crede di non poterne fare a meno e che i poligoni siano l’unica opportunità di sviluppo economico e di occupazione per i territori che li ospitano. Ad esempio, il sottosegretario alla Difesa- Domenico Rossi- ha parlato della forza del grande affetto dei sardi per la Brigata Tatarina in contrapposizione all’antimilitarismo, che sarebbe perciò minoritario
Tale costruzione ideologica si impone per varie rimozioni. Nelle scuole sarde, infatti, la storia della Sardegna non esiste. Lo scolaro sardo è convinto di discendere dagli antichi Romani, ignora la resistenza antiromana nell’isola, e conosce i principali avvenimenti storici basandosi su quanto avvenuto nella penisola italica. Non gli è dato modo di conoscere la civiltà nuragica, l’epoca dei Giudicati, la fallita rivoluzione sarda alla fine del XVIII secolo. Il sardo- fin dalla nascita- è indotto ad un processo d’identificazione con l’Italia e la storia della sua terra è- al massimo- la storia di chi l’ha dominata. È, insomma, un alienato. Perciò, non conosce i duri atti di repressione condotti dall’Esercito Italiano contro il suo popolo, dunque non sente insofferenza quando si celebra la fondazione delle Forze Armate o dell’Arma dei Carabinieri; è del tutto ignorante riguardo le vicende della Divisione Sassari ed i crimini da essa commessi in Iugoslavia durante la seconda guerra mondiale e quindi guarda alla Brigata come ad un “orgoglio sardo”; ignora gli espropri delle terre condotti dal Ministero della Difesa per la realizzazione dei poligoni, come quanto avveniva prima dell’interdizione delle acque ad essi connessi, non è quindi capace di concepire un utilizzo realmente economico per i terreni che l’Esercito ha sottratto alle comunità dell’isola.
Entro questa realtà, le mobilitazioni contro l’occupazione militare susseguitesi nell’ultimo anno acquisiscono una importanza storica fondamentale, potenzialmente gravida di conseguenze positive per il futuro della Sardegna come la progressiva trasformazione della mentalità del sardo oppresso.