Covid-19, più essenziale dell’azienda è la salute della forza lavoro
È nota la riluttanza di Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria italiana, riguardo l’attuazione di tempestive e drastiche misure al fine di contenere la diffusione del Covid-19. Nelle settimane passate associazioni datoriali, ma anche sindacali italiane e forze politiche, hanno spinto per non ridurre subito la produzione, accumulando un forte ritardo nel dotare la forza lavoro impiegata di adeguati strumenti di protezione, al pari di quanto accaduto sul versante pubblico negli ospedali. Nel dibattito su “chiusura o meno”, controlli e misure di sicurezza a tutela della forza lavoro sono passate in secondo piano. Oltretutto, fino ai primissimi giorni di marzo venivano lanciate campagne per non fermare movide e altro.
La situazione è inevitabilmente peggiorata nell’ultima settimana con la pendenza della curva simile ad una verticale, con nuovi contagi registrati nell’ordine di 4-5 mila al giorno e decessi per 600-800 unità, in larga parte nelle aree più colpite della Lombardia e Emilia Romagna. Tra l’altro, questo era un andamento previsto.
Si è invertito anche il meccanismo sovra-sotto stima. Fino a meno di due settimane fa il dibattito era ancora incentrato sulla retorica “anche con e non di Covid”. Oggi l’evidenza pratica è contraria, nei contesti più gravi del focolaio nord italiano, ma anche altrove, i morti possono essere sottostimati perché non ci sono mezzi per analizzare prontamente cause, circoscrivere l’ulteriore eventuale contagio e aggiornare i dati con precisione. Diversi i casi di solitari decessi in casa.
In questo contesto, il distanziamento sociale ha riguardato assembramenti pubblici, libertà individuali e collettive, larga parte dei servizi privati, piccolo-medio commercio e un’ampia schiera di servizi pubblici non essenziali. Alle limitazioni, anche tardive, delle attività economiche e di un’ampia fascia di popolazione fanno da contraltare molte realtà aziendali che, in una situazione sempre più critica, hanno proseguito la propria produzione. La forza lavoro impiegata non è stata e non è, di fatto, tutelata adeguatamente a scapito della salute pubblica che le norme, per altri molto restrittive, dovrebbero garantire.
Mentre liberi professionisti, commercianti, micro industrie e una larga parte di lavoratori pubblici e privati pensano al crollo delle proprie attività e redditi, alla libertà di movimento e altre restrizioni, una fascia di popolazione continua forzatamente a spostarsi e produrre, molto spesso senza dovute garanzie. La forza lavoro è stata scarsamente tutelata dal principio dell’epidemia e, anche dove queste tutele sono state previste, i tempi sono stati molto lunghi e i controlli piuttosto indulgenti. Ancora oggi, però, in grandi catene commerciali e industrie la tutela della forza lavoro è carente come lo è, si ribadisce, persino nel personale ospedaliero o socio-assistenziale di case di riposo e strutture affini.
Se è vero che il blocco totale del sistema socioeconomico può causare danni rimarginabili in anni e anni, se non decenni, è anche vero che realtà industriali e del grande commercio, se mal gestite, sono vere e proprie bombe sanitarie al pari di affollati bar e ristoranti, altre attività commerciali, servizi professionali e uffici pubblici. A questo si aggiunga che, in assenza di forti politiche redistributive, il debito contratto per sostenere i ceti più colpiti verrà ripagato nel tempo proprio dalle fasce più danneggiate acuendo nel corso dei prossimi anni diseguaglianze, già in forte crescita da almeno tre decenni. Insomma la domanda non è solo chi sta pagando di più ora ma anche chi pagherà maggiormente in futuro.
Se la situazione sarda non è paragonabile a livello industriale al nord Italia e all’espansione del relativo focolaio, sono comunque presenti alcune situazioni molto critiche come Saras-Sarlux e Vitrociset, considerate industrie strategiche e non bloccate dai diversi Dpcm, oltre alla tutela del personale del commercio e la triste condizione di quello di ospedali e residenze assistite, in particolare nel nord Sardegna. Oltretutto, in Gallura è presente un rilevante Distretto industriale sughericolo che, nonostante crisi e alterne vicende, conta ancora centinaia di operai e operaie. Focolai in alta Gallura sarebbero difficilmente gestibili in quanto l’ospedale di Tempio è sprovvisto di terapie intensive e sub-intensive mentre i nosocomi più vicini sono a decine di chilometri. La viabilità gioca un ruolo cruciale dal momento che si tratta della provincia più estesa di tutto lo Stato e l’Unione dei Comuni “Alta Gallura” è la più vasta di tutte le Unioni sarde e italiane.
Il virus non guarda fatturati o produzioni ma protezioni, fattori di contagio e profilassi. Se è vero come è vero vadano, anche e soprattutto in un momento di crisi, tutelate produzioni strategiche e, in generale, la tenuta socioeconomica della collettività, è altrettanto evidente che i costi sofferti da ampie fasce della popolazione non possono essere vanificati da centinaia di operai o commessi senza adeguata sicurezza. Questo è ancor più incoerente alla luce dell’intenzione di impedire – salvo dietrofront anche su pressione dell’ANCI Sardegna – autoproduzione in sconfinate campagne o limitare, secondo qualcuno, il contagio con sorveglianza militare o, ancora, scoraggiare comportamenti con droni parlanti e deficienti campagne di sensibilizzazione su “decisioni individuali”.
In un certo qual senso anche le decisioni organizzative della produzione sono comportamenti individuali delle proprietà di grande commercio e industrie e, come tali, dovrebbero conformarsi ad una responsabilità legale, sociale e di pubblica sicurezza. Il rischio concreto è quello dell’esplosione di focolai con conseguenti costi umani ed economici in seguito ancora maggiori, oltre all’esasperazione di tensioni e conflitti sociali dai risvolti difficilmente prevedibili.
Biciclette, corse e molte altre attività quotidiane possono essere, in larga parte, sacrificate per alcune settimane. D’altra parte, edulcorare il podista, il campagnolo in luoghi semi spopolati o chi vìola norme di sicurezza è demagogico se reparti ospedalieri registrano più personale contagiato rispetto alla popolazione, oltre numerosi contagi e decessi nelle case di riposo. È contraddittorio anche in relazione a reparti industriali o distribuzione commerciale dove non si assicura adeguata protezione alla forza lavoro. Questa garanzia non è certo un onere in capo ai lavoratori o lavoratrici stesse.
Il punto è quindi pratico: è possibile assicurare una continuazione della produzione, anche a regime ridotto, con la sicurezza della forza lavoro impiegata e, se sì, come le proprietà stanno garantendo questi standard di sicurezza? Chi sta eseguendo controlli? Che risultati stanno dando le verifiche? Ignorare, semplicemente, la questione non è una soluzione ma pura esternalizzazione sulla collettività. Il punto qui non è tanto l’essenzialità della produzione o la tenuta di un comparto, ma come l’attività specifica venga concretamente gestita in termini di procedure, sanificazione e protezioni. L’essere definita strategica o essenziale non deve mai essere ragione per allentare la sicurezza sulla forza lavoro impiegata.
Le responsabilità e i comportamenti in questione sono prima di tutto dirigenziali e organizzativi. Nei cd “comportamenti individuali”, accettandone l’espressione, rientra infatti un ampio e indefinito spettro di situazioni. Tutti i comportamenti hanno, sempre e comunque, conseguenze collettive seppur con gradazioni ed effetti diversi. Dal singolo cittadino, al piccolo agricoltore o commerciante fino al grande industriale. Il Covid-19 e la capacità di carico degli ospedali sono insensibili ai fatturati.