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Nazione abortiva (di Andria Pili)

orientamento scolastico arruolamentoIl 5 giugno scorso, il comune di Selargius ha dedicato una piazza ad Alessandro Pibiri, caporalmaggiore scelto della Brigata Sassari, in occasione del nono anniversario dalla sua scomparsa in un attentato a Nassiriya. L’evento mi ha toccato come selargino, fornendomi un’occasione per riflettere sui delicati temi della memoria dei caduti e sul rapporto tra la società sarda, i giovani ed il militarismo.

Gara di retorica militarista

Protagoniste della commemorazione le alte cariche militari della Brigata Sassari, il sindaco Gianfranco Cappai ed il cappellano militare Marco Zara. Tre pilastri dell’oppressione- Esercito, classe dirigente, Chiesa- uniti dalla medesima retorica.

Ad inaugurare la gara di eloquenza è Don Marco, il quale- prima di benedire la corona di alloro per il monumento funebre al sassarino- ha voluto evidenziare l’importanza del ricordo “che ci fa crescere e diventare uomini, sull’esempio di chi offre la sua vita per la libertà”.

La gara al più militarista è stata vinta ampiamente dal sindaco, il quale ha parlato di “debito di gratitudine verso i soldati caduti nella missione di pace”; “fiducia verso tutti i giovani in uniforme, animati da sani principi” i quali mettono a repentaglio “la vita per ristabilire condizioni di pacifica convivenza in terre lontane”. La denominazione della piazza sarebbe una “occasione per tributare ai nostri coraggiosi soldati (…) in particolare ai giovani della Brigata Sassari (…) il doveroso riconoscimento (…) per il servizio che rendono alla Patria”. Il sindaco del centrodestra unionista ha ricordato, come un vanto, che il comune ha dedicato alla Brigata Sassari un parco, oltre ad aver consegnato alla stessa una onorificenza. E ciò è stato fatto proprio in nome del “rapporto di reciproca stima che lega Selargius alla Brigata Sassari”. La scelta di dedicare il luogo al caduto nel 2006 è rivolta “ai giovani cui vogliamo proporre un modello, un esempio da seguire” oltre che un posto per “riflettere sui principi morali che hanno animato e animano i nostri soldati, giovani e meno giovani, in missione di pace, di farli propri nella vita di ogni giorno e viverli pienamente”.

Di fronte a questa grandiosa esibizione, il generale Nitti- dopo l’immancabile Preghiera del Soldato, in cui si chiede a Dio un aiuto per obbedire “alla Patria”, sebbene gli 800 euro mensili di un VFP1, i 950 di un VFP4, i 1400 di un VSP, più i 100 euro giornalieri per chi si trova in missione, dovrebbero già essere più che sufficienti allo scopo- non ha potuto che fare da accompagnamento al primo cittadino. Il Comandante della Brigata ha voluto ricordare un “concetto importante: i caduti in combattimento non sono eroi di altri tempi (…) ne abbiamo prova anche oggi dell’eroismo di chi opera nei teatri (…) Alessandro ne è la testimonianza”. Chi sono i caduti? “persone che hanno dato la vita per una causa giusta, per cui la Patria gli ha chiesto di operare”.

In sintesi: giustificazione morale del contributo militare italiano all’occupazione dell’Iraq; esaltazione dei soldati dell’Esercito Italiano; i caduti in missione come esempio da imitare per i ragazzi. Come era ovvio, nessuna riflessione veramente utile per i giovani sardi e mistificazione della realtà.

La cruda realtà, infatti, dice che: i soldati morti in Iraq sotto divisa italiana hanno dato la vita per l’imperialismo, durante un’occupazione militare che non ha migliorato la vita degli iracheni ma solo l’attivo delle multinazionali, come l’ENI, uniche ad avere un debito di gratitudine; la missione non è stata di pace, bensì di guerra – vedi la Battaglia dei Due Ponti ma anche il contesto in cui Pibiri stesso è morto, mentre scortava un convoglio logistico delle forze armate britanniche proveniente dalla provincia di Maysan, ove le truppe della Regina si sono distinte per violazioni dei diritti umani (vedi dossier Hague); i principi dei soldati non sono altro che una copertura ideologica, volta a dare dignità ad un impegno altrimenti inaccettabile sul piano etico e ad una scelta dettata da motivazioni economiche (nel 2007, il 70% delle richieste d’arruolamento proveniva dal Sud e le isole).

Per queste ragioni è necessario ribaltare il ricordo dei caduti: da eroi immolatisi per la giusta causa della “Patria” a vittime, ragazzi che avrebbero potuto dare un contributo alla propria comunità se lo Stato non gli avesse persuasi- specie con la sirena della “indipendenza economica”, sempre evidenziata dalla propaganda per l’arruolamento nel sito delle Forze Armate- a indossare una divisa. I giovani sardi, anziché farne un esempio da imitare, dovrebbero essere mossi da questo ricordo per lottare in nome del cambiamento di una società colonizzata, perché questa smetta di generare morti e dia modo a tutti di completarsi.

Figli della colonia Sardegna.

Il fatto che Alessandro Pibiri sia stato della mia città, abbia risieduto nel mio stesso quartiere, abbia frequentato le mie stesse scuole elementari, senza contare le comuni conoscenze, mi ha reso più evidente come io stesso avrei potuto essere come lui. Allo stesso tempo mi ha reso ben chiara la dimensione della tragedia- sebbene, nella grande maggioranza dei casi, chi indossa la divisa sia un privilegiato- per cui dei sardi sono caduti in missione “di pace”. Figli della Sardegna ma privi delle occasioni, delle esperienze, delle letture che hanno reso immuni dal militarismo italiano altri ragazzi come loro, minoritari almeno al tempo dell’occupazione dell’Iraq.

Figli di una scuola che non è volta ad educare i ragazzi al senso critico ma, al contrario, è veicolo dell’ideologia di Stato per cui i soldati italiani sono degli eroi, l’arruolamento nell’Esercito è un’occupazione come un’altra, anzi migliore, e le missioni di pace sono giuste. Indicativi sono certi temi imposti ai ragazzi delle scuole superiori, a volte per concorsi a premi ufficiali delle Forze Armate e della Difesa, come nel 2008 per l’ITC di Macomer “L’Esercito italiano una risorsa per il paese” o quest’anno per il centenario dell’ingresso italiano nella Grande Guerra. Educati, inoltre- questo è un grande punto distintivo rispetto alle altre regioni sfruttate della Repubblica- nella convinzione che la storia della Sardegna non esista, che la propria storia sia quella dell’Italia, quindi che questa sia la Patria da servire e la Repubblica Italiana l’istituzione cui è dovuta fedeltà. Posso raccontare due esperienze personali, come studente e come attivista politico: durante il mio ultimo anno di Liceo (2008/09) ho incontrato almeno 4 volte dei militari- due volte a scuola, una volta alla Fiera di Cagliari, un’altra volta all’orientamento universitario in Cittadella Universitaria ed oggi li avrei incontrati anche all’iniziativa OrientaSardegna- mentre non ho incontrato esponenti di altre professioni; da attivista dell’indipendentismo giovanile, durante un’assemblea di istituto, un ragazzino mi confidò di aver studiato la storia sarda soltanto come punizione, un compito aggiuntivo per essersi comportato male.

Figli di famiglie cattoliche, la cui Chiesa- dall’etica alterata- mentre non perde occasione per indicare a tutti il retto uso dei genitali e, alle donne, del proprio corpo, non ha mai usato la propria forza “spirituale” per orientare i propri fedeli contro la guerra imperialista. Quest’ultima, al contrario, è stata benedetta di fatto dalla presenza costante di uomini del clero ad ogni evento dell’Esercito Italiano e in maniera diretta dai discorsi dell’alto clero. Basti citare solo il discorso pronunciato dall’arcivescovo di Sassari, Paolo Atzei, durante una cerimonia al Sacrario Militare, lo scorso novembre: “valore delle missioni di pace (…) l’impegno dei soldati a tutela e protezione dei diritti dell’uomo e di tutti i popoli (…) un valore come il diritto alla pace va coltivato e rispettato, ma anche il valore della difesa della Patria e della comune fede cristiana (…) alla fine – quando ci sarà il giudizio universale– ci verrà chiesto se abbiamo agito in difesa di questi valori comuni o se ci siamo limitati a curare il nostro orticello”.

Figli di una società che ha interiorizzato il militarismo, dal mito del tributo di sangue dei sassarini sul Carso alle conseguenze sociali e culturali dell’occupazione militare, che ha convinto delle comunità di avere bisogno di basi militari anziché di progetti di sviluppo, soffocati dalla presenza delle servitù. Una società sottoposta alla dipendenza economica, incapace di fornire delle opportunità ai propri giovani: la Sardegna è ultima delle regioni dello Stato e tra le ultime regioni d’Europa (265^ su 269) per numero di laureati; seconda in Italia e nona in Europa per tasso di dispersione scolastica (23.5%), quindi pone sul mercato del lavoro un ingente numero di ragazzi destinati a lavori scarsamente qualificati e precari; gli studenti sardi sono intrappolati in circolo vizioso tra un’educazione scolastica e superiore che punta al ribasso e l’incapacità di assorbire coloro che sono altamente qualificati, costringendoli all’emigrazione giacché, nella nostra isola, andrebbero incontro a lavori sotto la propria competenza. In questo contesto, con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50% e del tutto privi di una prospettiva di lotta come pure degli strumenti per distinguere il vero dal falso, è normale che i giovani della nostra terra considerino l’arruolamento una cosa giusta da fare.

Il sindaco di Selargius, con il suo discorso, ha dimostrato di essere parte della classe dirigente sarda che, ostinata esecutrice della propria funzione coloniale, continua nella produzione di “aborti” come se non ci fosse una via di uscita. Analogamente, la città che amministra è emblema della Sardegna tutta. Pensiamo alla costruzione di un grande centro commerciale (Bricoman) presentata come grande opportunità di lavoro, contro artigiani e piccoli commercianti, mentre numerosi negozi cittadini hanno chiuso i battenti. Guardiamo le vie che ricordano grandi eventi della Grande Guerra e del Risorgimento, le annuali celebrazioni del 4 novembre e notiamo come la celebrazione della presunta “italianità” sia accompagnata dal disprezzo per la propria storia; infatti, solo una conferenza in aula consiliare- nel 2011- per rievocare i tumulti selargini del 1779, precursori della Sarda Rivoluzione, mentre una croce del XV secolo viene sorpassata giornalmente da ignari automobilisti ed un villaggio neolitico (Su Coddu) viene “decorato” dal cemento e dai mattoni per la costruzione di graziose villette. Infine, osserviamo il cartello all’ingresso della città: CERAXIUS; simbolo di una comunità tanto abituata alla relegazione della propria lingua nel privato e nel solo parlato, da essere incapace di scrivere correttamente il proprio nome.

Spetta ai giovani più coscienziosi operare perché i propri coetanei non ripongano più alcuna speranza nello stato di cose presente. La lotta per la realizzazione di un ordine più giusto in Sardegna, contro la destinazione d’uso coloniale decisa dall’oppressore, ha nella cultura la sua arma principale. L’identificazione del nemico passa per la consapevolezza di sé, in particolare tramite l’uso della propria lingua e la conoscenza della propria storia. In concreto, è necessario combattere per un sistema educativo sardocentrico, l’uso del sardo in ogni ambito, la realizzazione di media pensati in sardo per i sardi. Questi sono gli strumenti per costruire un ambiente in cui i più giovani concepiscano la diversità della propria terra, della propria condizione sociale ed economica, diventino sensibili ai messaggi di autodeterminazione e quindi si uniscano alla costruzione di una Repubblica libera di individui liberi e completi

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