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Colonialismo. La comunità sommersa di Pavel Stanj (di Andrìa Pili)

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Colonialismo. La comunità sommersa di Pavel Stanj (di Andrìa Pili)

Su 978 processi condotti dal Tribunale Speciale fascista negli anni 1927-1943, 131 furono condotti contro 544 imputati appartenenti alle minoranze slovena e croata. Su un totale di 4.596 condanne pronunciate, 476 furono comminate a Sloveni e Croati. Su 27.727 anni di carcere sentenziati, 4.893 furono inflitti a queste due comunità. E infine, su 42 condanne a morte, 33 furono emesse contro Sloveni e Croati. Negli anni 1930-1942 caddero davanti ai plotoni di esecuzione fascisti 19 Sloveni, dieci di essi prima dell’inizio della vera lotta armata*

Recentemente, anche in vista di un prossimo convegno da organizzare in facoltà con Scida, sto approfondendo la questione slovena in Italia. Leggendo questo passaggio- da un libro dello storico sloveno di cittadinanza italiana Pavel Stranj– ho anche riflettuto sulla celebrazione istituzionale del 25 aprile 1945 e sulla narrazione dell’antifascismo italiano nelle scuole e nei mezzi di comunicazione. Come sempre ad emergere è l’idea di una nazione italiana monolitica da cui discende conseguentemente un antifascismo ed una Resistenza al nazifascismo- pure nella varietà ideologica- come lotta di liberazione di questa nazione, mettendo tra parentesi i differenti effetti che il regime fascista ha avuto in comunità diverse da quella italica -come è il caso delle comunità slave come della Sardegna- esasperando l’oppressione politica, economica, sociale e culturale già propria dello Stato italiano in quanto tale. Nel caso della Slovenia ciò diede origine ad un movimento di liberazione nazionale, una Resistenza antifascista durante il Ventennio, prima dell’occupazione fascista della Iugoslavia e non marginale nella generale opposizione a questo regime.

In Sardegna non diede vita a qualcosa del genere ma è evidente come il regime fascista abbia avuto degli effetti specifici nella nostra isola, sia esasperando caratteri già presenti nel nostro rapporto con lo Stato sia ponendo una pietra tombale su un processo di autodeterminazione avviato dal Partito Sardo d’Azione (dopo la seconda guerra mondiale il PSdAz avrà una base sociale completamente diversa da quella avuta tra 1919 e 1926, che ne aveva fatto il maggiore partito antifascista nell’isola, annullando il suo carattere ostile alla classe dirigente sarda). Effetti che paghiamo ancora oggi. Per questo sarebbe necessaria una riflessione seria e non chiusa alla ricerca universitaria, agli intellettuali e ai singoli interessati. Una giornata sarda dell’antifascismo potrebbe essere un’occasione per farlo, in attesa di un’istruzione che fornisca ad ogni sardo le basi per la conoscenza della propria storia nazionale.

Andrìa Pili

*La comunità sommersa. Gli sloveni in Italia dalla A alla Z” , di Pavel Stranj, 1989

Assimilazione linguistica è colonialismo. In Saldigna il bilinguismo è patologia (di Luigi Piga e Carlo Manca)*

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Assimilazione linguistica è colonialismo. In Saldigna il bilinguismo è patologia (di Luigi Piga e Carlo Manca)*
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Riforma costituzionale ed inerzia regionale (di Andrìa Pili*)

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Foto: Vito Biolchini

Il governo Renzi è l’artefice di una grande riforma della Costituzione Repubblicana. Si tratta di una riforma in senso reazionario, specie per quanto riguarda il Titolo V, sulle autonomie regionali, con delle conseguenze negative anche su Regioni a Statuto Speciale come la Sardegna.

Infatti, il ddl Boschi ha abolito la potestà legislativa concorrente- inserita nella precedente riforma del 2001- riportando così allo Stato la competenza esclusiva su istruzione, Università (in precedenza non citata),  programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica, “politiche attive del lavoro” (prima non citate e divenute oggetto di conflitto tra lo Stato e le Regioni), “tutela e sicurezza del lavoro” (dal 2001 era legislazione concorrente Stato e Regione). Lo Statuto Autonomo della Sardegna non prevedeva tali competenze e perciò la nostra Regione le ha assunte soltanto con la riforma delle regioni ordinarie; ad esempio, la legge 7/2007 sulla promozione della ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica nell’isola si appella proprio all’articolo 117 della Costituzione. Insomma, la controriforma renziana colpisce duramente l’autonomia negli ambiti- lavoro ed istruzione- più importanti per combattere il disagio giovanile.

Mentre questo processo era in atto, i nostri massimi organi si sono distinti per la propria inerzia. Perché Consiglio e Giunta non si sono inseriti, non solo per conservare competenze acquisite nel 2001 ma anche per ampliare le competenze del nostro Statuto Speciale? In un momento in cui si discute con lo Stato centrale sopra una lunga serie di vertenze, questo atteggiamento mostra non solo quanto la nostra classe politica sia incapace di difendere i nostri interessi ma anche quanto il suo “scontro con lo Stato” sia in realtà una burletta. Prova di ciò anche la recente nomina a Ministro per gli Affari Regionali di Enrico Costa (NCD), nemico delle autonomie speciali.

L’assessore all’istruzione Claudia Firino ha ben rappresentato questa mancanza di reattività e di larghe vedute dell’attuale classe dirigente. Tardiva la sua reazione alla riforma della scuola e su provvedimenti lesivi del diritto allo studio (ISEE, decreto regionale sul fitto casa); emblematico il piano di ridimensionamento scolastico 2015, pianificante la chiusura di circa 40 istituti con pluriclassi; un atto di accompagnamento alla legge Gelmini, anziché l’elaborazione di un progetto formativo per i docenti operanti in queste realtà. Il progetto Iscol@ è stato presentato come progetto di “nuova scuola”, di “cambiamento profondo” che contrasterà la dispersione scolastica. Non mancano le cose positive (edilizia, nuove tecnologie, potenziamento della matematica) ma è assente è un progetto educativo di costruzione di una Sardegna nuova. Impossibile fare ciò senza poter intervenire in modo sovrano sulla didattica e senza un progetto per la lingua sarda, che sia utilizzata come lingua veicolare normalmente e non più con progetti a discrezione dei genitori, spesso non informati adeguatamente su tale opportunità.

Lo studio sociolinguistico più recente ha rivelato come il 61.5% dei ragazzi ed il 45.8% delle ragazze tra 15 e 24 anni parli il sardo; la dispersione scolastica può essere collegata anche all’impossibilità per i ragazzi sardofoni di poter ricevere una formazione nella propria prima lingua e di potersi esprimere in essa. Inoltre, i dati del master and back ci dicono qualcosa sull’alta formazione; infatti, non solo la maggioranza dei sardi formatisi all’estero con questo progetto non fa rientro nell’isola ma chi rimane in essa ha meno probabilità di trovare lavoro nel lungo periodo. Perciò, oltre ad un ambiente sviluppato e pronto ad assorbire le intelligenze, serve anche una formazione volta alla conoscenza ed all’applicazione delle competenze acquisite nella propria terra.

Riguardo la marginalizzazione delle Università sarde, la Firino si è espressa guardando a questa quasi come ad un’incomprensione del governo centrale riguardo i nostri problemi. Manca del tutto, dunque, la coscienza di uno scontro e della necessità di combattere per la potestà legislativa sarda in materia di istruzione. Una politica sovrana in materia d’istruzione e lavoro potrebbe considerare la lingua sarda come una risorsa: il 68.4% dei sardi parlerebbe in sardo mentre la percentuale salirebbe sino al 97% prendendo in considerazione anche chi, pur non parlando in sardo, è in grado di comprenderlo. Da qui sorge il diritto democratico di ogni cittadino a ricevere una formazione in sardo ed a pretendere l’obbligo della sua conoscenza in tutti i luoghi pubblici (posti di lavoro). Ciò avrebbe migliorato la condizione dei nostri docenti, ponendoli al riparo dal rischio emigrazione ed avrebbe impedito l’assegnazione di posti, nell’isola, a docenti privi di conoscenze specifiche riguardo la nostra isola.

Non mancano gli esempi esteri di politiche sovrane- o di importanti conquiste di competenze condivise- su lavoro ed istruzione entro altri Stati plurinazionali. Lo Scotland Act (1997) ha reso la Scozia sovrana in materia d’istruzione, consentendole di garantire un sistema d’istruzione pubblico. La Catalogna ha la competenza esclusiva sulla programmazione ed il coordinamento del sistema universitario, l’approvazione degli statuti degli atenei pubblici, la formazione dei docenti e competenza condivisa su valutazione e garanzia della qualità dell’insegnamento universitario; inoltre, il catalano è la lingua da utilizzare per l’apprendimento scolastico.

Entro il dominio francese, la Nuova Caledonia con gli accordi di Noumea del 1998 ha ottenuto lo statuto di cittadinanza per i propri abitanti, con l’obiettivo esplicito di proteggere l’impiego locale; inoltre, con la legge 99-209 del 1999 ha ottenuto la competenza nell’insegnamento primario, secondario e superiore oltre che nel diritto sindacale e del lavoro. La Corsica, con la legge 92/2002 ha ottenuto l’insegnamento della lingua corsa nella scuola primaria ed elementare. Si potrebbero citare tanti altri casi, anche in  Italia, specialmente per quanto riguarda l’insegnamento linguistico per le minoranze nella provincia di Bolzano, Valle d’Aosta e Friuli citate esplicitamente nella legge 107/2015 sulla Buona Scuola per proteggerle dalle norme di ripartizione e assunzione dell’organico dei docenti nel resto dello Stato.

Cosa ci differenzia da queste esperienze? La debolezza della nostra coscienza nazionale e del nostro  sardismo politico. La classe dirigente sarda attuale è incapace, contraria e disincentivata a pensare in modo autonomo dall’Italia la condizione giovanile e le politiche su lavoro ed istruzione.  Ad aggravare la situazione è l’idea reazionaria che la questione sarda debba essere oggetto esclusivo di una discussione e contrattazione tutta interna alle élite statali e sarde; solo un forte movimento popolare può  ottenere una revisione del rapporto tra la Sardegna e lo Stato italiano, essenziale per pensare a qualsiasi miglioramento.

*Pubblicato originariamente per Il Manifesto Sardo:

http://www.manifestosardo.org/riforma-costituzionale-ed-inerzia-regionale/

Gioventù sarda e dipendenza (di Andrìa Pili*)

Indipendentzìa

*Pubblicato originariamente da Il Manifesto Sardo  http://www.manifestosardo.org/gioventu-sarda-e-dipendenza/

Il 2015 sardo si è concluso con le esternazioni trionfalistiche dei massimi esponenti della Giunta Regionale riguardo i dati sull’occupazione nell’isola. Francesco Pigliaru e Raffaele Paci ci informano che il lavoro è cresciuto, la disoccupazione cala, crescono i contratti a tempo indeterminato. Interessante è questa frase del Presidente: “Significa che le imprese puntano di più sull’occupazione, rispondendo positivamente alle politiche del Jobs Act”. Confrontando il terzo trimestre del 2015 e quello del 2014, si contano 28000 posti di lavoro in più, il 68% dei quali nel settore alberghiero e ristorativo e dunque per lo più stagionale. Continua la lettura di Gioventù sarda e dipendenza (di Andrìa Pili*)

Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. II parte (di Andrìa Pili)

occupazione militare

 

Andrìa Pili per http://contropiano.org/

Mobilitazione popolare e livello istituzionale

La costante di questo anno di lotta contro l’occupazione militare è stata l’impermeabilità tra il movimento popolare e le istituzioni. Nel primo possiamo distinguere due componenti di fatto complementari: i movimenti indipendentisti e gruppi antimilitaristi della società civile che hanno promosso la manifestazione di Capo Frasca il 13 settembre 2014; una frangia caratterizzata dal richiamo all’azione diretta e all’antimilitarismo puro e semplice, ora espressa dalla “Rete No Basi né qui né altrove”. Ciò che accomuna le due è la volontà di promuovere una mobilitazione popolare contro le servitù militari intorno a tre punti radicali, ritenuti imprescindibili: blocco immediato di tutte le esercitazioni militari;

chiusura totale di ogni base militare e poligono presente in Sardegna; bonifica dei territori e riconversione ad uso civile.

Tale radicalismo, da entrambe, è stato mantenuto sino ad oggi per tutte le mobilitazioni e azioni promosse: manifestazione studentesca ed occupazione della facoltà di lettere di Cagliari in novembre; corteo intorno al poligono di Teulada e manifestazione a Cagliari di dicembre; manifestazione contro la Starex a Decimomannu nel giugno scorso; campeggio antimilitarista e recente dimostrazione a Cagliari contro la Trident Juncture.

L’istituzione della Regione Autonoma, con la sua Giunta ed il suo Consiglio, ed i parlamentari sardi a Roma sono stati del tutto incapaci di portare nelle sedi più importanti le istanze di questo movimento. Fin da subito sono parse inadeguate alla soluzione della questione militare e da sempre hanno ricercato finte soluzioni compromissorie, cercando di annacquare il conflitto. Per essi è stato impossibile strumentalizzare quanto avveniva dal basso. Non hanno potuto farlo neanche quando- al termine della manifestazione di Cagliari del dicembre scorso- dei rappresentanti del movimento hanno incontrato Pigliaru per chiedere che Giunta e Consiglio si pronunciassero nettamente per l’indisponibilità della Sardegna alle esercitazioni militari. I promotori hanno parlato significativamente di “ultimatum” alla classe politica regionale: se non fossero venuti incontro al movimento, questo avrebbe dovuto considerarli chiaramente come ostili.

Il Presidente della Regione Francesco Pigliaru ha assunto una sola posizione chiara: la difesa del Poligono di Quirra. Porta questa coerentemente avanti da quando svolgeva l’incarico di prorettore dell’Università di Cagliari- con l’adesione dell’ateneo al progetto del Distretto Aerospaziale della Sardegna, entro cui partecipano diverse società implicate nelle attività belliche- sino al documento di programmazione regionale del 22 luglio 2014, in cui i poligoni militari sono appunto individuati come aree entro cui tale distretto possa realizzarsi. Per il resto, solo letterine di protesta ed idee molto confuse e variate nel tempo: dalla richiesta di chiusura di 1/3 delle servitù, alla chiusura della sola Capo Frasca, alla chiusura di Capo Frasca a Teulada sino ad un accordo insignificante con il sottosegretario alla difesa e all’ottenimento di misure anti-incendio ed infine, la posizione più recente, la richiesta di avviare “una progressiva diminuzione delle aree soggette a vincoli, la graduale dismissione dei poligoni di Capo Frasca e Teulada e la riconversione del poligono interforze di Quirra”. È bene ricordarci del DASS quando si parla di “riconversione” del Poligono; Pigliaru, a dicembre dello scorso anno, parlò esplicitamente di “riconversione in chiave di ricerca duale”, cioè civile e militare.

Per quanto riguarda il Consiglio Regionale, basti pensare che il partito da cui ci si dovrebbe aspettare una maggiore intransigenza- il Partito dei Sardi, che si dice “indipendentista”- ha un presidente che ha recentemente definito importante l’Alleanza Atlantica ed un segretario che, una settimana prima della dimostrazione di Capo Frasca, ha scritto un comunicato ufficiale di sostegno a Pigliaru e di distacco da chi puntava il dito contro di lui. Inoltre, è importante notare che la formazione politica egemone nella maggioranza consiliare è il Partito Democratico. Questo, dal 2008, ha cercato una risoluzione reazionaria della questione militare puntando alla chiusura di Capo Frasca e Teulada ed alla riqualificazione in senso militarista di Quirra (entro cui va inserito il progetto del DASS). Tale posizione è stata, non a caso, definita “Piattaforma Pigliaru” da Mariella Cao, storica militante dell’antimilitarismo sardo, per mettere in guardia tutto il movimento dalle finte soluzioni. Cinque consiglieri del PD (Comandini, Deriu, Cozzolino, Sabatini, Lotto) hanno proposto una mozione in favore del rilancio delle attività dello stesso Poligono Interforze, definito “realtà d’eccellenza in campo europeo”. Non bisogna dimenticare che- a differenza di quanto avviene a livello statale- partiti che dovrebbero essere più ostili alla presenza militare come Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione Comunista sono alleati del Partito Democratico. Vista la posizione netta del PD in favore dell’occupazione militare, è evidente come i movimenti politici con esso compromessi siano oggettivamente inadeguati a condurre una lotta coerente per la smilitarizzazione dell’isola, al di là delle loro frasi di circostanza.

Nel Parlamento Italiano, i sardi oscillano tra mille contraddizioni. L’anno scorso, deputati e senatori sardi del PD hanno visitato il PISQ di Quirra per dare ad esso sostegno (Ignazio Angioni, Siro Marrocu, Romina Mura, Emanuele Cani); inoltre, i parlamentari Emanuele Cani, Caterina Pes, Giovanna Sanna, Romina Mura, Giampiero Scanu, Siro Marrocu e Francesco Sanna hanno votato in favore dell’equiparazione delle soglie di inquinamento entro i poligoni militari a quelle delle zone industriali (molto più alte). Non sono mancate le contraddizioni entro parlamentari dell’opposizione, malgrado la loro ostentata sensibilità al problema delle servitù: Michele Piras (SEL) e Roberto Cotti (M5S) hanno presentato l’approvazione della legge per l’innalzamento dei limiti d’altezza per l’arruolamento nell’Esercito Italiano come la fine di una discriminazione per i sardi- che luogo comune, quando non vero e proprio complesso di inferiorità del colonizzato, vuole congenitamente bassi, mentre la loro altezza media è già superiore ai suddetti limiti- Piras parlò addirittura di restituzione di “una opportunità lavorativa e di crescita professionale” per i giovani dell’isola e di “prova di una grande sensibilità sociale e di autonomia dagli Stati Maggiori”. La contraddizione sta nell’accettare, di fatto, come legittima la presenza dell’Esercito Italiano nell’isola. Chi non la considera tale di certo non esprimerebbe giubilo nell’ampliare la possibilità che i sardi possano arruolarsi. Ovvio come ciò vanifichi l’espressione “occupazione militare”- sempre rimarcata dal livello popolare della lotta- e faciliti il raggiungimento di una finta soluzione, presentata come la massima raggiungibile anziché come il massimo di ciò che certi soggetti possono proporre dato il proprio livello di compromissione con lo stato di cose presenti.

Tale contraddizione ci serve ad aprire una grande porta sul problema principale di tutti quelli che potremmo chiamare i “falsi amici” della lotta contro le servitù militari: l’incomprensione della questione nazionale sarda.

Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. I parte (di Andrìa Pili)

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Andrìa Pili per http://contropiano.org/

Nel mese d’ottobre la Sardegna sarà coinvolta nella Trident Juncture 2015, l’operazione NATO volta a testare le unità militari atlantiste nella prospettiva di nuovi conflitti. Queste esercitazioni, nell’isola al centro del Mediterraneo occidentale, sono l’ennesimo sopruso inflitto ad un popolo che soffre da circa mezzo secolo la presenza di tre poligoni (tra cui il più grande d’Europa, 13400 ha, Quirra, ed il più grande della Repubblica a Teulada, 7200 ha) oltre che di oltre i 3/5 delle servitù militari italiane. Oltre a questo, sono anche un sonoro schiaffo ad una comunità che da oltre un anno ha assunto una consapevolezza maggiore del problema militarista. Sensibilità e rabbia mai avute in precedenza il cui detonatore fu l’incendio di 32 ettari di macchia entro il poligono di Capo Frasca ed il cui campo propagatore fu la crisi economica, con conseguente progressiva sfiducia verso i partiti tradizionali, aggravante una condizione sociale difficile derivante da una storica oppressione di tipo coloniale.

La Sardegna può essere definita una nazionalità storica, la cui oppressione politica, sociale ed economica è sempre andata di pari passo con la sua riduzione ad oggetto per le esigenze militari della potenza imperiale o imperialistica di turno che ha visto l’isola come un grande avamposto nel Mediterraneo. Solo sotto lo Stato italiano- probabilmente perché tale dominazione è coincisa con l’affermazione passiva della modernizzazione e della società di massa- questo elemento costante nei secoli ha assunto un carattere ideologico molto forte, il quale è divenuto centrale nella mentalità del sardo oppresso, colonizzato. Già alle scuole elementari i sardi apprendono del “tributo di sangue” versato dalla Brigata Sassari durante la Grande Guerra, come da esso discenderebbe un legame indissolubile con l’Italia così come un elemento di unità per gli stessi sardi- che leggenda vuole pocos, locos y mal unidos- grazie al quale si sarebbe creato il Partito Sardo d’Azione, l’autonomismo, rendendo quindi possibile una ridefinizione del rapporto con lo Stato centrale- nella sua fase repubblicana- ove la “specialità regionale” è posta in maniera armonica con l’appartenenza alla “grande nazione italiana”, lontano da pericolose e immorali spinte “separatiste”. Entro questa identità subalterna, il sardo colonizzato non solo è orgoglioso del “suo” reggimento etnico entro l’Esercito Italiano ma ritiene di poter convivere con i siti militari presenti nella sua terra; anzi, crede di non poterne fare a meno e che i poligoni siano l’unica opportunità di sviluppo economico e di occupazione per i territori che li ospitano. Ad esempio, il sottosegretario alla Difesa- Domenico Rossi- ha parlato della forza del grande affetto dei sardi per la Brigata Tatarina in contrapposizione all’antimilitarismo, che sarebbe perciò minoritario

Tale costruzione ideologica si impone per varie rimozioni. Nelle scuole sarde, infatti, la storia della Sardegna non esiste. Lo scolaro sardo è convinto di discendere dagli antichi Romani, ignora la resistenza antiromana nell’isola, e conosce i principali avvenimenti storici basandosi su quanto avvenuto nella penisola italica. Non gli è dato modo di conoscere la civiltà nuragica, l’epoca dei Giudicati, la fallita rivoluzione sarda alla fine del XVIII secolo. Il sardo- fin dalla nascita- è indotto ad un processo d’identificazione con l’Italia e la storia della sua terra è- al massimo- la storia di chi l’ha dominata. È, insomma, un alienato. Perciò, non conosce i duri atti di repressione condotti dall’Esercito Italiano contro il suo popolo, dunque non sente insofferenza quando si celebra la fondazione delle Forze Armate o dell’Arma dei Carabinieri; è del tutto ignorante riguardo le vicende della Divisione Sassari ed i crimini da essa commessi in Iugoslavia durante la seconda guerra mondiale e quindi guarda alla Brigata come ad un “orgoglio sardo”; ignora gli espropri delle terre condotti dal Ministero della Difesa per la realizzazione dei poligoni, come quanto avveniva prima dell’interdizione delle acque ad essi connessi, non è quindi capace di concepire un utilizzo realmente economico per i terreni che l’Esercito ha sottratto alle comunità dell’isola.

Entro questa realtà, le mobilitazioni contro l’occupazione militare susseguitesi nell’ultimo anno acquisiscono una importanza storica fondamentale, potenzialmente gravida di conseguenze positive per il futuro della Sardegna come la progressiva trasformazione della mentalità del sardo oppresso.

La questione nazionale greca (di Andria Pili)

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Questo pezzo vuole essere l’inizio di una serie di riflessioni sull’indipendentismo e la Sardegna di fronte all’Unione Europea. È d’obbligo cominciare con una riflessione in merito alla Grecia, visto come la vicenda di questo Paese sembra toccare la ragione d’essere dei movimenti di emancipazione nazionale: il diritto all’autodeterminazione dei popoli e alla lotta contro l’oppressione straniera. Continua la lettura di La questione nazionale greca (di Andria Pili)

Nazione abortiva (di Andria Pili)

orientamento scolastico arruolamentoIl 5 giugno scorso, il comune di Selargius ha dedicato una piazza ad Alessandro Pibiri, caporalmaggiore scelto della Brigata Sassari, in occasione del nono anniversario dalla sua scomparsa in un attentato a Nassiriya. L’evento mi ha toccato come selargino, fornendomi un’occasione per riflettere sui delicati temi della memoria dei caduti e sul rapporto tra la società sarda, i giovani ed il militarismo.

Gara di retorica militarista

Protagoniste della commemorazione le alte cariche militari della Brigata Sassari, il sindaco Gianfranco Cappai ed il cappellano militare Marco Zara. Tre pilastri dell’oppressione- Esercito, classe dirigente, Chiesa- uniti dalla medesima retorica.

Ad inaugurare la gara di eloquenza è Don Marco, il quale- prima di benedire la corona di alloro per il monumento funebre al sassarino- ha voluto evidenziare l’importanza del ricordo “che ci fa crescere e diventare uomini, sull’esempio di chi offre la sua vita per la libertà”.

La gara al più militarista è stata vinta ampiamente dal sindaco, il quale ha parlato di “debito di gratitudine verso i soldati caduti nella missione di pace”; “fiducia verso tutti i giovani in uniforme, animati da sani principi” i quali mettono a repentaglio “la vita per ristabilire condizioni di pacifica convivenza in terre lontane”. La denominazione della piazza sarebbe una “occasione per tributare ai nostri coraggiosi soldati (…) in particolare ai giovani della Brigata Sassari (…) il doveroso riconoscimento (…) per il servizio che rendono alla Patria”. Il sindaco del centrodestra unionista ha ricordato, come un vanto, che il comune ha dedicato alla Brigata Sassari un parco, oltre ad aver consegnato alla stessa una onorificenza. E ciò è stato fatto proprio in nome del “rapporto di reciproca stima che lega Selargius alla Brigata Sassari”. La scelta di dedicare il luogo al caduto nel 2006 è rivolta “ai giovani cui vogliamo proporre un modello, un esempio da seguire” oltre che un posto per “riflettere sui principi morali che hanno animato e animano i nostri soldati, giovani e meno giovani, in missione di pace, di farli propri nella vita di ogni giorno e viverli pienamente”.

Di fronte a questa grandiosa esibizione, il generale Nitti- dopo l’immancabile Preghiera del Soldato, in cui si chiede a Dio un aiuto per obbedire “alla Patria”, sebbene gli 800 euro mensili di un VFP1, i 950 di un VFP4, i 1400 di un VSP, più i 100 euro giornalieri per chi si trova in missione, dovrebbero già essere più che sufficienti allo scopo- non ha potuto che fare da accompagnamento al primo cittadino. Il Comandante della Brigata ha voluto ricordare un “concetto importante: i caduti in combattimento non sono eroi di altri tempi (…) ne abbiamo prova anche oggi dell’eroismo di chi opera nei teatri (…) Alessandro ne è la testimonianza”. Chi sono i caduti? “persone che hanno dato la vita per una causa giusta, per cui la Patria gli ha chiesto di operare”.

In sintesi: giustificazione morale del contributo militare italiano all’occupazione dell’Iraq; esaltazione dei soldati dell’Esercito Italiano; i caduti in missione come esempio da imitare per i ragazzi. Come era ovvio, nessuna riflessione veramente utile per i giovani sardi e mistificazione della realtà.

La cruda realtà, infatti, dice che: i soldati morti in Iraq sotto divisa italiana hanno dato la vita per l’imperialismo, durante un’occupazione militare che non ha migliorato la vita degli iracheni ma solo l’attivo delle multinazionali, come l’ENI, uniche ad avere un debito di gratitudine; la missione non è stata di pace, bensì di guerra – vedi la Battaglia dei Due Ponti ma anche il contesto in cui Pibiri stesso è morto, mentre scortava un convoglio logistico delle forze armate britanniche proveniente dalla provincia di Maysan, ove le truppe della Regina si sono distinte per violazioni dei diritti umani (vedi dossier Hague); i principi dei soldati non sono altro che una copertura ideologica, volta a dare dignità ad un impegno altrimenti inaccettabile sul piano etico e ad una scelta dettata da motivazioni economiche (nel 2007, il 70% delle richieste d’arruolamento proveniva dal Sud e le isole).

Per queste ragioni è necessario ribaltare il ricordo dei caduti: da eroi immolatisi per la giusta causa della “Patria” a vittime, ragazzi che avrebbero potuto dare un contributo alla propria comunità se lo Stato non gli avesse persuasi- specie con la sirena della “indipendenza economica”, sempre evidenziata dalla propaganda per l’arruolamento nel sito delle Forze Armate- a indossare una divisa. I giovani sardi, anziché farne un esempio da imitare, dovrebbero essere mossi da questo ricordo per lottare in nome del cambiamento di una società colonizzata, perché questa smetta di generare morti e dia modo a tutti di completarsi.

Figli della colonia Sardegna.

Il fatto che Alessandro Pibiri sia stato della mia città, abbia risieduto nel mio stesso quartiere, abbia frequentato le mie stesse scuole elementari, senza contare le comuni conoscenze, mi ha reso più evidente come io stesso avrei potuto essere come lui. Allo stesso tempo mi ha reso ben chiara la dimensione della tragedia- sebbene, nella grande maggioranza dei casi, chi indossa la divisa sia un privilegiato- per cui dei sardi sono caduti in missione “di pace”. Figli della Sardegna ma privi delle occasioni, delle esperienze, delle letture che hanno reso immuni dal militarismo italiano altri ragazzi come loro, minoritari almeno al tempo dell’occupazione dell’Iraq.

Figli di una scuola che non è volta ad educare i ragazzi al senso critico ma, al contrario, è veicolo dell’ideologia di Stato per cui i soldati italiani sono degli eroi, l’arruolamento nell’Esercito è un’occupazione come un’altra, anzi migliore, e le missioni di pace sono giuste. Indicativi sono certi temi imposti ai ragazzi delle scuole superiori, a volte per concorsi a premi ufficiali delle Forze Armate e della Difesa, come nel 2008 per l’ITC di Macomer “L’Esercito italiano una risorsa per il paese” o quest’anno per il centenario dell’ingresso italiano nella Grande Guerra. Educati, inoltre- questo è un grande punto distintivo rispetto alle altre regioni sfruttate della Repubblica- nella convinzione che la storia della Sardegna non esista, che la propria storia sia quella dell’Italia, quindi che questa sia la Patria da servire e la Repubblica Italiana l’istituzione cui è dovuta fedeltà. Posso raccontare due esperienze personali, come studente e come attivista politico: durante il mio ultimo anno di Liceo (2008/09) ho incontrato almeno 4 volte dei militari- due volte a scuola, una volta alla Fiera di Cagliari, un’altra volta all’orientamento universitario in Cittadella Universitaria ed oggi li avrei incontrati anche all’iniziativa OrientaSardegna- mentre non ho incontrato esponenti di altre professioni; da attivista dell’indipendentismo giovanile, durante un’assemblea di istituto, un ragazzino mi confidò di aver studiato la storia sarda soltanto come punizione, un compito aggiuntivo per essersi comportato male.

Figli di famiglie cattoliche, la cui Chiesa- dall’etica alterata- mentre non perde occasione per indicare a tutti il retto uso dei genitali e, alle donne, del proprio corpo, non ha mai usato la propria forza “spirituale” per orientare i propri fedeli contro la guerra imperialista. Quest’ultima, al contrario, è stata benedetta di fatto dalla presenza costante di uomini del clero ad ogni evento dell’Esercito Italiano e in maniera diretta dai discorsi dell’alto clero. Basti citare solo il discorso pronunciato dall’arcivescovo di Sassari, Paolo Atzei, durante una cerimonia al Sacrario Militare, lo scorso novembre: “valore delle missioni di pace (…) l’impegno dei soldati a tutela e protezione dei diritti dell’uomo e di tutti i popoli (…) un valore come il diritto alla pace va coltivato e rispettato, ma anche il valore della difesa della Patria e della comune fede cristiana (…) alla fine – quando ci sarà il giudizio universale– ci verrà chiesto se abbiamo agito in difesa di questi valori comuni o se ci siamo limitati a curare il nostro orticello”.

Figli di una società che ha interiorizzato il militarismo, dal mito del tributo di sangue dei sassarini sul Carso alle conseguenze sociali e culturali dell’occupazione militare, che ha convinto delle comunità di avere bisogno di basi militari anziché di progetti di sviluppo, soffocati dalla presenza delle servitù. Una società sottoposta alla dipendenza economica, incapace di fornire delle opportunità ai propri giovani: la Sardegna è ultima delle regioni dello Stato e tra le ultime regioni d’Europa (265^ su 269) per numero di laureati; seconda in Italia e nona in Europa per tasso di dispersione scolastica (23.5%), quindi pone sul mercato del lavoro un ingente numero di ragazzi destinati a lavori scarsamente qualificati e precari; gli studenti sardi sono intrappolati in circolo vizioso tra un’educazione scolastica e superiore che punta al ribasso e l’incapacità di assorbire coloro che sono altamente qualificati, costringendoli all’emigrazione giacché, nella nostra isola, andrebbero incontro a lavori sotto la propria competenza. In questo contesto, con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50% e del tutto privi di una prospettiva di lotta come pure degli strumenti per distinguere il vero dal falso, è normale che i giovani della nostra terra considerino l’arruolamento una cosa giusta da fare.

Il sindaco di Selargius, con il suo discorso, ha dimostrato di essere parte della classe dirigente sarda che, ostinata esecutrice della propria funzione coloniale, continua nella produzione di “aborti” come se non ci fosse una via di uscita. Analogamente, la città che amministra è emblema della Sardegna tutta. Pensiamo alla costruzione di un grande centro commerciale (Bricoman) presentata come grande opportunità di lavoro, contro artigiani e piccoli commercianti, mentre numerosi negozi cittadini hanno chiuso i battenti. Guardiamo le vie che ricordano grandi eventi della Grande Guerra e del Risorgimento, le annuali celebrazioni del 4 novembre e notiamo come la celebrazione della presunta “italianità” sia accompagnata dal disprezzo per la propria storia; infatti, solo una conferenza in aula consiliare- nel 2011- per rievocare i tumulti selargini del 1779, precursori della Sarda Rivoluzione, mentre una croce del XV secolo viene sorpassata giornalmente da ignari automobilisti ed un villaggio neolitico (Su Coddu) viene “decorato” dal cemento e dai mattoni per la costruzione di graziose villette. Infine, osserviamo il cartello all’ingresso della città: CERAXIUS; simbolo di una comunità tanto abituata alla relegazione della propria lingua nel privato e nel solo parlato, da essere incapace di scrivere correttamente il proprio nome.

Spetta ai giovani più coscienziosi operare perché i propri coetanei non ripongano più alcuna speranza nello stato di cose presente. La lotta per la realizzazione di un ordine più giusto in Sardegna, contro la destinazione d’uso coloniale decisa dall’oppressore, ha nella cultura la sua arma principale. L’identificazione del nemico passa per la consapevolezza di sé, in particolare tramite l’uso della propria lingua e la conoscenza della propria storia. In concreto, è necessario combattere per un sistema educativo sardocentrico, l’uso del sardo in ogni ambito, la realizzazione di media pensati in sardo per i sardi. Questi sono gli strumenti per costruire un ambiente in cui i più giovani concepiscano la diversità della propria terra, della propria condizione sociale ed economica, diventino sensibili ai messaggi di autodeterminazione e quindi si uniscano alla costruzione di una Repubblica libera di individui liberi e completi

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Trenta Denari (di Andrìa Pili).

trantadenariI risultati delle elezioni sarde dello scorso 16 febbraio, probabilmente, avranno diverse conseguenze nefaste la cui portata si può – ora – solo ipotizzare, sperando che si minimizzi. Tuttavia, uno degli effetti già evidenti è il notevole progresso nel decennale tentativo di istituzionalizzare l’indipendentismo, l’unico movimento che può incanalare il disagio sociale sardo entro una soluzione rivoluzionaria: la creazione di una Repubblica indipendente di Sardegna. Questo tentativo, oggi, è sfociato nella creazione di una nuova forma di sardismo (o, per convenzione,  autonomismo militante – tenendo conto che, entro l’istituzione Regione Autonoma, ogni organizzazione politica è autonomista) assai più pericolosa della precedente, innanzitutto perché accompagnata da una orrida deriva etico-culturale.

Il riferimento è, ovviamente, alle organizzazioni iRS e Partito dei Sardi, le quali – grazie ad un’alleanza con il centrosinistra, ovvero alla compiacenza del Partito Democratico – sono riuscite ad ottenere tre seggi (rispettivamente una e due poltrone) nonostante un infimo risultato elettorale (0.82% per il primo e 2.66% il secondo). Gli uomini chiave di tali organizzazioni sono Gavino Sale e Franciscu Sedda, i quali furono anche – se non le principali – senz’altro le figure più conosciute e apprezzate dell’indipendentismo nel primo decennio del 2000. Le ragioni della loro alleanza con il centrosinistra unionista possono solo essere ipotizzate; tuttavia, che si sia trattato di una sincera manovra politica o di mero opportunismo, dato il ruolo che hanno esercitato nel passato, non cambia il fatto oggettivo: tradimento delle ragioni della nazione sarda.

Continuità e discontinuità con l’autonomismo storico
La novità di queste due partiti non sta nell’essersi alleati con partiti o coalizioni unioniste, al fine ufficiale di condizionarne le politiche in senso sardocentrico. Non sta neppure nel fare la medesima politica, autoproclamandosi “indipendentista” e, dunque, giustificando essa come una tattica gradualista verso l’indipendenza. Entrambe queste cose sono state già fatte dal Partito Sardo d’Azione, fin dall’inizio della Regione Autonoma; basti pensare che già il primo governo autonomista (1949-51) fu una giunta Democrazia Cristiana-PSd’Az. Ebbe la stessa composizione la giunta Alfredo Corrias (1954-55) ed Efisio Corrias (1958-65). I sardisti furono anche membri di alcune giunte di centrosinistra con PSI e PSDI (1965-67; 1973) e anche con il PCI (1980-82). Nel 1979 il PsdAz adottò una posizione indipendentista, mentre nel 1981 avvenne il cambiamento del primo articolo dello Statuto, sancendo la definitiva scelta indipendentista del partito. Tuttavia, essa non corrispose ad un cambiamento di azione politica, ma si rivelò una scelta efficace per rilanciare un partito in declino: se alle elezioni negli anni ’70 il Partito si era ridotto al 2-3% dei consensi elettorali, nel 1984 esso prese il 13.8% dei suffragi, diventando la terza forza politica con 12 consiglieri e la presidenza della Regione (Mario Melis). Tuttavia, la conseguente giunta di centrosinistra (1984-89) con PCI-PSI-PSDI  fu una prosecuzione della vecchia politica e non riuscì a consolidare il successo del partito fondato da Lussu, segnando invece la morte del vento sardista. Dal 1995 al 1997 il PsdAz fu nella giunta di centrosinistra presieduta da Palomba, mentre dal 2009 sostenne quella del centrodestra con Ugo Cappellacci, appoggiato da loro anche in questa tornata elettorale.

La storia dell’autonomismo ha pienamente dimostrato il fallimento della politica delle alleanze adottata da Sale e Sedda. In più, c’è da pensare che essi lo sappiano perfettamente, visto che abbandonarono Sardigna Natzione proprio in polemica con l’alleanza fra quest’ultima ed il PSdAz! Quindi, malgrado nessuno possa sapere con certezza i motivi che hanno condotto loro a tale scelta, la probabilità tende fortemente verso un’unica ragione: opportunismo. La scelta estrema di due individui prossimi alla morte politica (due indizi: l’ultima percentuale elettorale di iRS testimonia, oggettivamente, il crollo di consensi e di militanti del partito del consigliere sassarese; il semiologo Sedda, invece, era uscito da ProgReS – probabilmente assai scontento d’aver perso la posizione di dirigente a vita che aveva in iRS – ed aveva ultimato l’esperienza da presidente del comitato Fiocco Verde).

Tuttavia, mentre il PsdAz si è sempre ritenuto un soggetto politico autonomo tanto da non sentirsi vincolato ad una particolare alleanza (in sessant’anni di storia autonomistica, il sardismo è stato assieme all’unionismo di Centro, Sinistra e Destra ma anche con l’indipendentismo di Su Populu Sardu e Sardigna Natzione), iRS e PdS – specie il primo – hanno scelto esplicitamente il centrosinistra unionista come proprio naturale compagno di viaggio. Questo è ciò che distingue i “sovranisti” dal vecchio autonomismo; questa è la fase recente della istituzionalizzazione dell’indipendentismo da parte dell’unionismo. Possiamo comprendere ciò attraverso recenti dichiarazioni di Gavino Sale su stampa e televisione, secondo cui la presenza di “indipendentisti” in ambedue gli schieramenti unionisti di centrodestra e centrosinistra sarebbe il segno che – finalmente – l’indipendentismo si sarebbe evoluto in una parte di Destra ed una di Sinistra. Questo carattere “nuovo” – dal punto di vista indipendentista – lungi dall’essere un’evoluzione, è una involuzione. Ciò rende i due opportunisti – più che dei neoautonomisti – dei neounionisti o dei presardisti.

Ora, al governo con Pigliaru, contando anche i due seggi dei Rossomori – eredi dell’autonomismo passato – i “sovranisti” non hanno i numeri consiliari tali da assumersi dei meriti (la maggioranza di centrosinistra reggerebbe anche senza di loro). Il che significa che il centrosinistra unionista potrebbe assumersi il merito di ogni misura sardocentrica che sarà approvata (come l’Agenzia sarda delle Entrate), contribuendo a nascondere il conflitto, e che gli ex indipendentisti diverranno complici di ogni sua malefatta. Quello che viene, da essi, spacciato come un grande successo potrebbe, in realtà, ritorcersi contro di loro.

La deriva etico-culturale dei traditori Sale e Sedda
L’esecrabilità della scelta politica dei due ex indipendentisti sta innanzitutto qui: voler rendere l’indipendentismo un appendice dell’unionismo, nascondere il conflitto attraverso la partecipazione attiva nel sistema unionista, confondere le ragioni della Nazione sarda con quelle dello Stato italiano. Infine – come nella proverbiale notte ove tutte le vacche sono nere – porre sullo stesso piano chi tradisce la Sardegna con chi continua a perseguire una coerente lotta di liberazione nazionale. Dal punto di vista etico, non vi è errore peggiore del porre sullo stesso piano un comportamento giusto con uno sbagliato, un’azione buona con un’azione cattiva; giacché significa negare l’esistenza stessa di Bene e Male e quindi giustificare ogni atto, compresi i più vergognosi. Dal punto di vista logico, dato il principio di non contraddizione, ignorare la dicotomia o porsi una falsa dicotomia non può che condurre ad errori grossolani.

La Politica non è “l’arte del vivere insieme” od un luogo ove ogni posizione deprecabile deve essere tollerata in omaggio ad un malinteso senso del rispetto. La Politica è uno scontro fra opposti interessi, una lotta fra l’Emancipazione e l’Oppressione. Così come chi si ritrova in mezzo al mare non può rifiutarsi di nuotare- pena la morte per affogamento o il porsi in balia della corrente – così chi vive in una società, non può rifiutarsi di partecipare a questo scontro, pena il soccombere o il porsi in balia dell’oppressore. Per questo è necessario dotarsi di una dicotomia valida, al fine di elaborare azioni giuste per vincere questa lotta. Entro una Sardegna colonia, sottomessa alla Repubblica Italiana e vittima dell’imperialismo, l’unica dicotomia valida è: Nazione Sarda contro Stato Italiano. Ogni aspetto sociale va ricondotto entro questo schema: non si può stare con la Sardegna e con lo Stato contemporaneamente, che si sia coscienti o meno della propria posizione. Per questo chi si allea con i partiti unionisti sta con lo Stato italiano e, di conseguenza, è un nemico della Nazione Sarda.

Il punto forte della retorica dei partiti oggetto di questa analisi, è stato questo: portare l’indipendentismo al governo. Questo è quanto ogni indipendentista desidera; la spregevolezza della comunicazione di questi presardisti sta nel voler confondere fini e mezzi. Perciò, il fine non è più quello di abbattere la situazione di subalternità della nostra nazione ma diventa entrare nella Giunta o conquistare dei seggi in Consiglio. Per questo, un autentico indipendentista continuerà a vedere la presenza nelle istituzioni come un mezzo irrinunciabile e rifiuterà ogni alleanza con gli unionisti, cioè contro coloro che sono i nemici del fine ultimo; il “sovranista”, invece, non vede alcuna contraddizione nell’allearsi con i partiti italiani, giacché il fine è quello di ritagliarsi un proprio ruolo entro il sistema dominante. Non si capisce perché, inoltre, si debba fare lo Stato sardo con persone come Gianfranco Ganau o Francesco Pigliaru: a venir fuori, pure fosse possibile realizzare l’indipendenza con essi, sarebbe soltanto uno Stato sardo fantoccio utile a distribuire medaglie e privilegi a qualcuno, ma non a rompere i rapporti di forza che opprimono i sardi.

L’ultima giustificazione circolante riguarda la legge elettorale liberticida; ma l’alleanza tra iRS ed il centrosinistra non è stata figlia di questa, come tendenziosamente i dirigenti di tale partito vorrebbero far credere. Tutti sanno che tale pensiero era covato già da tempo – forse fin della implosione di iRS nel 2010 ma sicuramente da oltre un anno – quando si strinsero rapporti amichevoli con diversi esponenti del centrosinistra (Dadea, Lobina…) e si coniò il termine “sovranismo” per un residuo senso del pudore.

Un altro aspetto che mal si concilia con l’etica è il modo con cui iRS e PdS, durante la campagna elettorale, hanno palesemente mistificato la storia catalana e scozzese. Ultimo esempio è la surreale intervista a Maninchedda, su Videolina, nel giorno degli scrutini.  In particolare, il paragone più gettonato è stato con il partito Esquerra Republicana de Catalunya, cercando di far intendere che l’imminente indipendenza della nazione con l’estelada sia dovuta all’alleanza di governo fra questo e la sinistra unionista spagnola, tra il 2003 ed il 2010. La storia della Catalogna narrata da Sale e Sedda omette almeno quattro cose importanti:

1) Dalla proclamazione della Generalitat, nel 1980, ad oggi – escluso il governo di Sinistra tra il 2003 ed il 2010 – a governare è stata Convergencia i Uniò, questo è il nome attuale del catalanismo liberaldemocratico che, in circa 25 anni di governo, ha senz’altro inciso nella società catalana molto più di ERC, tenendo in mano l’esecutivo in solitudine.
2) Alle elezioni del 2003 – inizio del governo di centrosinistra – Esquerra prese il 16,44%, ma nelle successive consultazioni (2006) il partito crollò al 14%, perdendo oltre centomila voti. Alle elezioni del 2010 – al termine dell’esperienza di governo con il PSC – Esquerra prese solo il 7%, ritornando ai livelli di un decennio prima e perdendo circa 300000 voti rispetto al 2003.
3) ERC oggi ha appoggiato il governo nazionalista di CiU, che nella scorsa legislatura aveva indetto il referendum, da una posizione di forza (21 seggi, secondo partito catalano) ma senza CiU non ci sarebbe mai stata la Dichiarazione di Sovranità e nemmeno il referendum.
4) I successi della ERC attuale sono dovuti alla crescente avversione verso le politiche liberiste del governo di Artur Mas, non a quella alleanza con l’unionismo spagnolo.

Sostenere che l’alleanza ERC-PSC per il governo 2003-2010 sia l’artefice della prossima indipendenza catalana è solo una menzogna. Ma, forse, dire bugie al popolo sardo viene ritenuta cosa accettabile entro questa deriva etica.

Il Partito dei Sardi, inoltre, ama paragonarsi allo Scottish National Party. Forse non sanno che questo partito – pur essendo fin troppo moderato con l’unionismo – non ha mai partecipato a governi guidati da unionisti britannici e quando ha conquistato le redini dell’esecutivo, dal 2007 a oggi, ha sempre governato da solo. Siamo, quindi, di fronte ad un altro paragone errato e palesemente traviante.

Schiacciare l’infamia: l’indipendentismo sardo e internazionale di fronte ad opportunisti e traditori
Di fronte a questo vergognoso comportamento, le cui conseguenze rischiano di danneggiare il movimento di liberazione nazionale, è necessario che l’indipendentismo tutto predisponga manovre necessarie al fine di impedire la nascita, dal suo seno, di nuovi infami e stabilisca come affrontare quelli esistenti. Innanzitutto, occorre criticare aspramente il pensiero postmoderno – dominante culturalmente nei primi anni 2000 entro il cui pentolone, iRS, è nata – che porta al rifiuto di ogni verità assoluta e quindi di ogni modello razionale. Senza una solida base teorica, si è condotti verso azioni sbagliate e a non riconoscere più ciò che è vero da ciò che è falso. Se vi sono persone che – sinceramente – hanno seguito gli opportunisti Sale e Sedda la causa sta, in gran parte, in questo grave deficit formativo. Ragion per cui dovrebbe essere d’obbligo, per i movimenti indipendentisti, l’organizzazione di corsi volti ad una formazione politica, che permetta di fare subito il deserto attorno al personalismo e la possibilità di esprimere il proprio pensiero in appositi fogli di propaganda politica. Ogni militante dovrebbe sentirsi protagonista di un progresso culturale e formativo più ampio, un processo continuo, annullando ogni monopolio del pensiero. Un’idea giusta non appartiene a nessun stregone particolare, anche se ha una cattedra di semiotica.

Al di là della questione etico-culturale, il solo modo per impedire la nascita di nuovi personalismi è quello di massimizzare la democrazia interna e la partecipazione: revocabilità di ogni carica in qualsiasi momento; divieto di mandati consecutivi.

iRS e PdS devono essere trattati come un qualsiasi altro partito unionista: hanno scelto il loro campo, lo Stato italiano, e gli indipendentisti devono rompere ogni rapporto con essi, mettere in mostra la loro vera natura, mettendo in guardia il popolo sardo dai subdoli richiami di questi traditori al servizio dell’Oppressione. In più, occorre premere affinché i suddetti partiti siano isolati a livello internazionale dagli altri indipendentismi europei: la lotta per l’emancipazione nazionale di ogni popolo oppresso riguarda ogni popolo oppresso; la mancanza di appoggio, quando non la condanna esplicita, da parte dei movimenti nazionalisti di liberazione, aiuterebbe i veri indipendentisti sardi nello screditare l’opportunismo autonomista verso il popolo sardo.

La lotta per la liberazione della Nazione Sarda è una cosa seria. L’oppressione è reale, il conflitto con lo Stato preesiste alla nostra stessa nascita individuale. La militanza indipendentista è, quindi, un dovere etico quanto una necessità: ne va della nostra sopravvivenza come uomini e come comunità nazionale. Chi punta a ricomporre il conflitto o a nascondere esso, alleandosi con il nemico, merita l’esecrazione e sta già scrivendo la propria condanna storica. Noi indipendentisti coerenti non dobbiamo far altro che prenderne atto, oggettivamente. Perché non è una questione di opinioni o di scelte ugualmente rispettabili: Pintor, Cabras, Musso, Sisternes tradirono le ragioni della Sardegna, combattendo Angioy al fine di difendere i propri privilegi; Emilio Lussu tradì le ragioni della Sardegna, scegliendo lo Stato italiano, quando avrebbe potuto guidare i sardi all’indipendenza. Così vuole una narrazione sardocentrica della nostra storia nazionale, cioè – per noi – la Storia. Gavino Sale e Franciscu Sedda hanno scelto lo Stato italiano, tradendo le ragioni della Sardegna per salvare se stessi da una inesorabile morte politica. Perché mai la Storia dovrebbe giudicarli diversamente?

Andrìa Pili.

(pubblicato originariamente su http://scida.altervista.org/ )

– http://scida.altervista.org/trenta-denari/