Le giornate dedicate al bilinguismo organizzate dal Comitadu Sardu Ufitziale ci hanno insegnato essenzialmente due cose:
1. Esiste un movimento linguistico abbastanza radicato che pone la questione linguistica come base per un discorso nazionale maturo;
2. Questo movimento si configura come un laboratorio di idee da cui possiamo trarre alcune lezioni, a partire dal superamento del settarismo e della balcanizzazione che rendono l’attuale scenario indipendentista debole e inefficace perché sostanzialmente scoordinato.
Molto si è detto sul primo punto e sono anche note le polemiche in campo, non sempre dettate da spirito costruttivo, sulla standardizzazione e sulla normalizzazione della lingua sarda. Qui vorrei però analizzare il secondo aspetto che nessuno o quasi ha preso in considerazione e riflettere cioè sul modello politico implicito che sta dietro alla vita e all’attività del CSU.
Da poco si è riaperto su due blog sardi (Sardegnasoprattutto e Sardegnamondo) il dibattito sull’indipendentismo, sui suoi limiti, le sue oggettive difficoltà, la débâcle postelettorale e sul suo potenziale rilancio. In quel contesto (con un mio intervento ospitato su Sardegnamondo) ho ricordato come nel corso della storia ci sono state tante occasioni in cui posizioni distanti tra loro e addirittura conflittuali si sono riconosciute in una comunità di interesse generale e hanno fatto la storia.
L’esempio dell’Assemblea Nazionale francese al tempo della Grande Rivoluzione nata nella sala della Pallacorda è solo uno dei tanti che avrei potuto fare, ma credo che abbia reso un buon servigio all’idea. Una cara amica e compagna di lotta l’ha definito il “quadrato” all’interno del quale, date alcune ferree regole, ogni homo ludens deve fare di tutto per prevalere sull’avversario, dove però chi sgarra è fuori dal contesto, quindi dal gioco inteso come attività unificante di tutti i partecipanti.
Ebbene, penso che ad Oschiri si sia visto un piccolo embrione di ciò che potrebbe e dovrebbe diventare il quadrato della politica nazionale sarda. Un concorso di idee e progetti, anche divergenti e in contrasto tra loro, che però si riconoscono nella necessità condivisa di un cambio di paradigma essenziale, ovvero in quella rivoluzione copernicana da più parti auspicata che metta al centro della questione politica in Sardegna gli interessi del popolo sardo e la progressiva marginalizzazione dei riferimenti politici che non hanno né testa né arti in Sardegna.
Ad Oschiri abbiamo visto il funzionamento pratico di tale meccanismo politico su un tema ben specifico come la lingua. È significativo che la stessa dirigenza del CSU abbia reagito alla balcanizzazione linguistica con l’aderenza all’idea di una lingua nazionale, (pur nel pieno rispetto delle singole parlate e delle lingue alloglotte), non tanto per difendere un particolare ecosistema linguistico o per occuparsi di linguistica applicata, bensì puntando su un compiuto progetto politico-culturale di carattere nazionale e generale. È questo il dato da mettere in valore e da prendere a modello.
Associazioni culturali, movimenti politici anche molto distanti tra loro per estrazione ideologica e scelte strategiche, professionisti e singoli cittadini si sono confrontati per due giorni tracciando una linea precisa su un tema di interesse nazionale uscendo temporaneamente fuori dai propri orti e orticelli. Ognuno ha certamente tirato acqua al suo mulino come è naturale e ovvio che accada e forse è anche bene che sia così. Ma questo modello non è forse preferibile a quello che ha imperato fino ad oggi in casa indipendentista, cioè al modello della chiesa che si rivolge ai fedeli con linguaggio liturgico ed escludente?
Dopo anni di militanza indipendentista, facendo i conti della serva, dovremmo chiederci “che cosa vogliamo costruire”? Se vogliamo continuare ad attirare coloro i quali sono simili a noi per caratteristiche che riguardano più l’estetica del linguaggio che i contenuti e le strategie, allora continuiamo così: tante piccole agenzie di indipendentismo guidate da altrettanti capipopolo capaci di magnetizzare il consenso di alcune decine di followers a proprio seguito. Il nostro ego sarà soddisfatto, perché avremo l’impressione di essere al centro del mondo e le nostre giornate saranno piene di gratificanti pacche sulle spalle, like e condivisioni. Potremmo continuare perfino a dire che il nostro gruppo sta facendo lo stato, che siamo la vera sinistra indipendentista o che rappresentiamo l’indipendentismo moderno. Ma le autoproclamazioni estetiche riescono a fare la storia?
Io credo che allo stato attuale delle cose ci serva altro, vale a dire uno spazio condiviso e ben delimitato, un quadrato di gioco appunto, in cui le diverse tendenze e opinioni si formino su precise e concrete prese di posizone, sul come e sul quando “rivoltare l’oggetto”, ma in cui la necessità del cambio di paradigma non sia più materia di estenuanti ed inutili discussioni che ci fanno solo perdere tempo ed energie a tutto vantaggio di un nemico ben strutturato e ancora capace di attrarre vasti consensi sfruttando la sua rete di clientele, la leva mediatica e lo scarso tasso di coscienza nazionale e sociale in cui versa oggigiorno il nostro popolo.
Solo delimitando lo spazio politico di una alternativa pragmatica a tutti i partiti italiani e alle loro stampelle si può garantire l’affermarsi nella società di un indipendentismo davvero moderno, vale a dire maturo e non chiesastico, di ampio respiro e ben radicato socialmente, fondato sulla questione linguistica e sulla lotta per un modello economico alternativo a quello finora imposto da Stato e multinazionali, plurale e dialettico al suo interno ma anche unitario e convergente, capace di magnetizzare comitati civici, forze intellettuali libere, movimenti sociali e lavoratori, senza scordarsi la larga sacca di delusi dai partiti italiani e in particolare della cosiddetta “sinistra”.
Solo così garantiremo al popolo sardo una reale alternativa ai partiti italiani e al reticolo efficiente e ben finanziato delle loro clientele, prosciugando le ragioni che portano molti indipendentisti a fare “a sa sora”, a cercare sempre la gonnella di qualche partito che gli permetta di entrare nella stanza dei bottoni o il giornalista compiacente che avalli il suo colpo di mano mediatico per affermarsi come “leader”. L’opportunismo, il populismo, il leaderismo e la balcanizzazione non si sconfiggono a parole e coi proclami, ma costruendo un contesto ufficiale dove chiunque voglia giocare a quel dato gioco debba per forza di cose entrare e rispettarne regole e modalità, senza truccare le carte o doparsi.
Mi sembra che questa sia l’unica alternativa alla balcanizzazione delle forze, ai personalismi sterili, all’opportunismo, al fiorire incontrollato e spesso abbastanza ridicolo di nuovi santoni e nuove chiese dell’avvento. Ma dobbiamo metterci al lavoro da subito, al contrario di quanto si è sempre pensato infatti il periodo peggiore per lanciare progetti di convergenza è quello elettorale. Chi ci sta?