Nazioni senza stato
L’articolo di Steven Forti sulla questione catalana L’eterna seduzione del nazionalismo, pubblicato in “A” 385 (dicembre 2013-gennaio 2014), e le domande che esso pone hanno accesso la nostra attenzione e il desiderio di raccogliere quei dubbi, di aggiungerne degli altri, ma soprattutto di guardare alla questione della lotta di liberazione nazionale da una prospettiva diversa e più ampia che ci aiuti a calare la lotta nazionale in contesti sociali e territoriali diversi.
Per prima cosa pensiamo sia necessario chiarirci sui termini che useremo, e che fanno parte di quel vocabolario che ritorna sempre nella discussione sulla lotta di liberazione nazionale, poiché risulta impossibile sviluppare un confronto costruttivo fino a quando gli interlocutori restano vincolati all’equazione nazione uguale stato e nazionalismo uguale autoritarismo/sciovinismo. Sono queste equazioni che spesso portano la discussione, soprattutto in ambito libertario, a un’incomprensione di fondo con il rischio di scivolare in una buona dose di retorica e un’impossibilità di confronto. Per rispondere alle stesse domande che, ad esempio, Forti pone nel suo articolo ci sembra necessario chiarire il significato dei concetti che usiamo; pensiamo che per far ciò non sia tanto importante guardare alle vecchie pagine di storia o alle definizioni che i teorici anarchici o meno del passato hanno saputo dare, perché necessariamente legate a un dato contesto storico, ma ridare un senso alle parole a partire dall’attualità che ci circonda.
È questo un passaggio fondamentale per riattualizzare il patrimonio delle lotte di liberazione nazionale e soprattutto per rendere le nostre analisi strumenti utili al nostro agire quotidiano; se ciò coinciderà o meno con quanto i teorici, anche del panorama anarchico, hanno espresso anni or sono non è per noi di primaria importanza, poiché riteniamo che ogni analisi sia utile quando capace di diventare grimaldello di lotta nella nostra pratica. Ebbene, prima di qualsiasi dibattito, chiariamo subito il senso delle parole che ritorneranno alle orecchie dei lettori di questa breve riflessione.
NAZIONE e NAZIONALISMO: se guardiamo all’essenza di questo termine, liberandolo dalle sovrastrutture che la storia le ha dato a seconda dei contesti, ci accorgiamo che nazione indica un insieme di individui che condividono una lingua, una storia, un modo economico e una concezione del vivere in un dato territorio geografico. Nazione, quindi, è fondamentalmente un concetto culturale che indica lo sviluppo che una comunità, che condivide gli elementi indicati, ha sviluppato nel corso della sua storia; nazione, quindi, è per sua natura un termine interclassista, poiché indica l’insieme di tutte le classi che condividono quelle caratteristiche essenziali, classi che ricoprono poi un ruolo diverso nel processo storico di quella stessa comunità. Quando questi individui hanno coscienza dell’appartenenza a una Nazione, ecco che parliamo di Nazionalismo. Questo senso di appartenenza può ovviamente connotarsi in diversi modi (come la storia ha dimostrato, il nazionalismo può entrare a far parte del bagaglio culturale tanto della destra quanto della sinistra), questo però non va ad inficiare il suo significato originario, nonostante questo; soprattutto in Italia, per la storia propria di questo stato, il concetto di nazionalismo tende a essere riconosciuto patrimonio quasi esclusivo della destra.
COLONIALISMO: parliamo di colonialismo quando sussiste un rapporto di sfruttamento di rapina da parte di uno Stato verso una Nazione oppressa, uno sfruttamento caratterizzato dalla sottrazione di risorse a discapito della Nazione senza alcuna ricaduta sul territorio; un rapporto che si manifesta anche in uno scontro tra concezioni del mondo diverse, dove lo Stato mira alla distruzione degli elementi di autodeterminazione della Nazione, attraverso l’alienazione rispetto alla cultura di appartenenza, l’esproprio delle capacità e delle tecniche produttive autoctone e la radicalizzazione di un modello economico e sociale alieno rispetto al territorio. Il risultato è un rapporto di dipendenza, dove la Nazione vede appiattire il proprio patrimonio culturale (frutto di un lungo ed articolato processo storico nato dalle esigenze delle comunità e determinatosi anche nello scontro con modelli esterni), sui modelli imposti dall’alto e ridurre sempre più le pratiche di autodeterminazione.
AUTODETERMINAZIONE: parlare di autodeterminazione significa riempire di contenuti autoctoni il proprio agire, significa quindi lottare per affermare sé stessi, in quanto individui e in quanto comunità, in contrapposizione a chi agisce affinché la libertà di un popolo si riduca al massimo alla scelta del proprio sfruttatore. Ovviamente, autodeterminarsi non significa solo rompere le catene della dipendenza statale, ma combattere anche contro quelle proprie della nostra cultura di appartenenza; non è quindi un processo di rivendicazione passiva e acritica del proprio patrimonio culturale, ma al contrario è prassi attiva per ridisegnare una nostra identità che cambia nel tempo e nello spazio.
LOTTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE: è quel processo per cui una nazione lotta per un processo di emancipazione dalle catene della dipendenza statale; ogni movimento di liberazione nazionale, tuttavia, ha un duplice aspetto: uno è incarnato nelle rivendicazioni di rottura delle comunità e degli individui contro lo Stato egemone, un altro esprime le pretese dirigenziali della “borghesia compradora” che di fatto mira al passaggio di consegna del potere. Nel primo caso la lotta di liberazione nazionale è lotta degli sfruttati su una base di classe che si materializza in una prassi di rivolta sociale, nel secondo caso è un processo reazionario che di fatto mira a farsì che tutto cambi affinché nulla possa cambiare; all’interno di quest’ultimo aspetto rientra anche il ruolo fondamentale di tutti quei partiti (inclusi i partiti travestiti da movimenti) che svolgono il ruolo di interlocutori e mediatori con lo Stato e, pur ammantandosi della veste indipendentista o anticolonialista, di fatto propongono un modello di compatibilità con lo Stato stesso. Ecco perché per noi la lotta di liberazione nazionale assume un vero significato di rottura quando si lega alla rivoluzione sociale, ossia quando mira a rompere non solo i rapporti di dipendenza interna ma ad attaccare il modello di sfruttamento capitalistico in senso imperialista, quando cioè la lotta per la propria terra diventa contributo alle lotte degli altri popoli con cui condividiamo uno stesso nemico, seppur ammantato di colori diversi.
Manifesto che invoca una “Bretagna Libera”
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Non crediamo, quindi, che chi parla di nazione non pensi ai processi di sfruttamento che vivono gli altri popoli, né che necessariamente si sia disposti o si debba “stringere la mano al proprio sfruttatore per un obiettivo comune”; ogni lotta di liberazione nazionale, essendo profondamente legata alle caratteristiche proprie di una data comunità che è vissuta in un dato momento storico, ha avuto sfumature diverse ed è importante tenerne conto per evitare generalizzazioni che forse non ci aiutano a capire il contributo che ognuna di esse ha portato. Se è vero, ad esempio, che nel caso della Catalogna il ruolo della borghesia è stato centrale nel movimento indipendentista, questo non lo è nel caso della Sardegna dove di fatto l’assenza di una borghesia “alla catalana” pone tutta una serie di quesiti diversi. Rispetto alla prima considerazione, relativa alla supposta neutralità della nazione in lotta verso le oppressioni degli altri popoli, crediamo che la storia di quasi tutti i popoli in lotta, dentro e fuori i confini europei, è stata al contrario storia di solidarietà, poiché chiunque faccia parte di una Nazione colonizzata, e si sente doppiamente oppresso come proletario e come individuo privato della sua identità culturale individuale-collettiva, capisce perfettamente le istanze di liberazione nazionale e sociale degli altri popoli. L’unità del proletariato catalano e castigliano, quindi, non si nega nella lotta di liberazione nazionale del primo ma al contrario si conferma nella prospettiva futura di una liberazione di ambedue, dove l’avanzamento di una nel processo di lotta significherà contributo alla lotta dell’altro poiché comune è il proprio padrone, che parli catalano o castigliano. Se una classe ha fatto propria l’idea dell’“internazionalismo” (seppur virandolo a fosche a tinte ipercapitaliste) è proprio la borghesia finanziaria sostenuta dal punto di vista giuridico dai vari organismi sovranazionali. Per questa classe le culture tradizionali, il radicamento e la capacità dei popoli di sviluppare un modo economico che sia armonico col territorio in cui vivono sono un ostacolo alla circolazione del denaro, delle merci e degli sfruttati che le producono/consumano: l’omologazione culturale e l’appiattimento di bisogni, gusti e interessi sono garanzia di massimo profitto e massimo controllo.
È per questo che pensiamo sia necessario, soprattutto all’interno del movimento libertario, riflettere sul fatto che il sentimento di appartenenza a “un mondo intero” non debba escludere le specificità che ogni oppresso porta con sé e la legittimità di una lotta contro l’omologazione culturale e per la riappropriazione della propria terra; se è vero che ci sentiamo parte di un’unica comunità, questa coincide, non con un virtuale mondo senza confini, ma con la condizione di sfruttamento che ogni comunità e individuo vive nel proprio territorio. Per questo la lotta di un popolo che difende la sua terra dalla speculazione, dalla militarizzazione e dalla distruzione delle prassi autoctone è per noi lotta popolare, proletaria, anticapitalista e antistatalista. Per quale motivo un catalano, un sardo, un corso o basco che sia dovrebbe rinunciare ad affermare la propria identità o sentirsi meno oppresso perché gode di qualche concessione autonomistica? Se la lotta di liberazione nazionale può assumere sfumature diverse e i rapporti colonialistici possono mutare nel tempo e nello spazio, come già è avvenuto rispetto al colonialismo tradizionale, perché questo deve significare rinunciare a priori a una lotta che parte dalla riappropriazione di ciò che lo Stato ci ha sottratto, dalla lingua, ai metodi di produzione locale, fino alla concezione stessa del nostro rapporto con la terra e con gli altri membri della nostra collettività? Il “terzomondismo” non è dunque quello di chi rivendica la propria appartenenza ad una nazione ma di chi in Europa solidarizza (e giustamente!) con i palestinesi, con la lotta del popolo Mapuche o cita a modello la ribellione indigenista dell’EZLN per poi ignorare o peggio stigmatizzare le istanze di liberazione nazionale di popoli a lui più vicini.
Illustrazione, con testo in lingua sarda, sulle minoranze nazionali in Europa
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Un tema da affrontare
Non abbiamo qui lo spazio per discutere dei numerosi aspetti che le lotte di liberazione portano con sé, e speriamo che in futuro ci sia la possibilità di farlo, ma non crediamo che la lotta di liberazione nazionale si possa liquidare come un pezzo di antiquariato politico o come patrimonio della destra fascistoide; diversamente pensiamo sia un tema che il movimento libertario deve affrontare innestandovi tutta la sua carica antiautoritaria, per riappropriarci non solo concretamente della nostra terra ma anche di quei termini che, svuotati del loro potenziale rivoluzionario, possono diventare ulteriori oggetto di rapina da parte dello stato.