Indipendentismo. Troviamo la nostra sala della pallacorda (di Cristiano Sabino)
Trovo interessante e lungimirante il dibattito ospitato dai blog “SardegnaSoprattutto” e “SardegnaMondo” e vorrei poter dire la mia. Ricordo quando ci sedemmo a discutere del percorso di convergenza indipendentista. Eravamo all’Hotel Mariano IV nell’ex capitale del Giudicato arborense. Tutti noi avevamo il peso della storia addosso e lo portammo avanti per un anno intero affrontando discussioni serrate che si prolungavano fino a notte. C’era gente che oggi se si incontrasse per strada forse non si saluterebbe nemmeno. Non fu un lavoro facile perché fino ad allora gli indipendentisti si erano spaccati su questioni ideologiche e non su reali linee di strategia politica. La vera storia della bandiera sarda, il parteggiare per Gandhi o Marx, tutte le possibili interpretazioni ermeneutiche dei lemmi “nazionalismo”, “sardismo” e infine, last but not least la questione della non violenza elevata a questione di fede e non a opzione storicamente determinata.
Chi ha militato nel periodo storico compreso fra la fine degli anni Novanta fino alla scrittura della Carta di Convergenza Indipendentista ricorda molto bene quali erano le risposte quando si avanzavano proposte di lavoro comune: «no, voi non adottate la vera bandiera sarda»; «no, voi non siete gandhiani»; «no, voi siete indipendentisti di vecchio stampo “con il formaggio in tasca”, noi siamo indipendentisti moderni».
In questo il percorso di convergenza indipendentista ha avuto successo e può essere dichiarato fallimentare solo da parte di chi quel percorso non lo conosce, non vi ha partecipato perché assente dalla militanza attiva o non ne condivide finalità ed obiettivi: oggi l’indipendentismo, per quanto frammentato e indebolito, può confrontarsi liberamente su temi concreti e strategie, decidendo magari anche di non convergere o di scontrarsi duramente su questioni puntuali, ma l’epoca delle cacce ereticali è definitivamente tramontata e ciò è possibile proprio grazie a quel percorso che solo operando distorsioni superficiali può essere ridotto ad un “contratto” non andato a buon fine.
Altra anticaglia della storia dell’indipendentismo è l’annosa questione sinistra-non sinistra. Oggi i profeti del trasversalismo ideologico (né di destra né di sinistra ma sardi), del resto tipico di quel periodo storico in cui si parlava addirittura di “fine della storia” tanto la weltanschauung neoliberista sembrava essersi imposta come unica dimensione politica possibile, rilasciano dichiarazioni infuocate sulla necessità di schierarsi a sinistra. Anzi, se ci dovessimo fermare alle apparenze, potremmo dire che l’indipendentismo è diventato quasi tutto di sinistra, anche se ovviamente poi bisogna andare a guardare le reali motivazioni di tali dichiarazioni che spesso mascherano l’adesione organica al centrosinistra italiano finalizzata all’ottenimento di alcuni privilegi di carattere personale come posti in Consiglio Regionale o consulenze, sempre regionali, lautamente retribuite.
Resta però un dato di fatto che anche da questo punto di vista l’indipendentismo è diventato più laico e oggi appare normale che esistano orientamenti di sinistra (quella vera, cioè anticapitalista e antimperialista, da quella anarchica a quella comunista a quella realmente socialdemocratica) e orientamenti con notevoli aperture al pensiero classico liberale o con un maggiore taglio civico. Paletti importantissimi, anzi vitali, se pensiamo all’onda nera montante a cui anche molti sedicenti indipendentisti cedono che fa del razzismo e del qualunquismo fascio-leghista il proprio orientamento politico.
Il superamento del settarismo ideologico è andato quindi di pari passo con il riconoscimento della pluralità ideologica che caratterizza il movimento di liberazione nazionale, nel rispetto dei paletti fondamentali per ogni discorso basato sull’emancipazione quali l’antirazzismo, l’antifascismo, il riconoscimento dei diritti civili e umani.
Il lettore potrebbe a questo punto apparire confuso. Ma come, Sabino ci dice che va tutto bene, che l’indipendentismo ha fatto grandi passi avanti visto che non si parla più di lana caprina e ci si incontra o ci si divide finalmente sui temi o sulle strategie? Sarebbe una giusta osservazione e infatti da qui in poi mi vorrei concentrare sulle note dolenti, in particolar modo sul vero e proprio cancro che corrode il movimento di liberazione nazionale: l’assenza di democrazia.
Questo punto è colto con lucidità da Ivo Murgia che constata una tendenza direi antropologica dell’indipendentismo odierno: la paranoia personalistica e antidemocratica che Freud avrebbe sicuramente inserito in qualche rubrica della sua Psicopatologia della vita quotidiana:
Non è possibile pensare che alla più piccola differenza teorica o pratica si vada automaticamente a una scissione e alla creazione di un nuovo partitino personale, le correnti vanno gestite in un contesto moderno e adulto. Non si scappa dalle proprie responsabilità sbattendo la porta e rinfacciando la lesa maestà a chi per una volta si è permesso di non essere d’accordo con noi. Così si comportano i bambini, gli immaturi e gli egocentrici, tutte tipologie di persone che in questo momento non servono all’indipendentismo
La democrazia è dunque la vexata quaestio con cui dover fare i conti. Qui però bisogna capire bene che cosa si intende quando parliamo di “democrazia”. È quantomeno superficiale ridurre la questione democratica alla sola vita interna delle organizzazioni, le quali fra l’altro oggi non rappresentano nei fatti la vastità del mondo e dell’opinione pubblica indipendentista. Continuare a ripetere come un mantra che la democrazia nel mondo indipendentista si riduce alla “democrazia interna” alle singole organizzazioni – come frettolosamente liquida Devias nel suo intervento – significa non aver compreso che un’epoca è certamente tramontata, vale a dire appunto la logica feudale, segnalata da Mongili, dei partiti-testimonianza del “a casa mia comando io e tu non ci metti naso”. O capiamo questo o siamo morti, tutti.
Mi spiego meglio, dalla questione “democrazia” dipende la vita o la morte dell’indipendentismo che, a dispetto di ciò che sostiene sempre Devias, versa in reale pericolo visto che il suo spazio politico proprio è stato ormai occupato manu militari da personaggi politicamente e teoricamente devianti come Mauro Pili, Paolo Maninchedda e loro accoliti.
In politica il vuoto non esiste e se l’indipendentismo non trova uno spazio di agibilità comune condivisa, quindi democratica e programmata, è destinato a sparire nel nulla o ad essere riassorbito da terzi come appunto sta già velocemente avvenendo proprio in questi mesi. Per non essere soggetto a fraintendimenti, che in questa sede sarebbero distorcenti, spiego con alcuni esempi ciò che intendo con il segnalare deficit di democrazia di cui abbiamo finora sofferto.
Dopo le elezioni regionali gli indipendentisti avrebbero potuto e dovuto presentarsi come reale alternativa al governo di Pigliaru e avviare un ragionamento di convergenza per compattare l’opposizione alle scellerate politiche di svendita e di aggressione speculativa del centrosinistra italiano. Ciò non è avvenuto e Mauro Pili ha nei fatti invaso lo spazio politico che durante le regionali avevano conquistato Sardegna Possibile e Fronte Indipendentista Unidu. Perché?
A mio avviso è appunto mancata una cornice democratica condivisa e ci si è sfaldati perdendo l’occasione straordinaria che avevano dato le elezioni che avremmo dovuto utilizzare come trampolino di lancio verso la conquista dell’egemonia della società sarda. Quando parlo di democrazia come collante fra gli indipendentisti intendo ad esempio che non si può rifiutare di gestire un vasto movimento popolare di lotta, per esempio contro le basi militari, accentrando tutto in una o due organizzazioni promotrici che rifiutano di allargare la gestione della mobilitazione a tutte quelle componenti che hanno come fine la cacciata delle basi e come metodo l’esercizio della sovranità del popolo sardo.
Democrazia vuol dire che non si affossa un movimento sociale di ampia portata come è stata per esempio la Consulta Rivoluzionaria perché nel frattempo sono subentrati interessi di altro genere e si gestiscono trattative elettorali sottobanco con il PD o il M5S. Democrazia significa che i progetti politici nati in un bagno di folla democratico non possono essere liquidati da tre persone in una stanzetta dopo averne dichiarato la morte legale, ma si deve avere il coraggio di affrontare quelle stesse persone a cui in campagna elettorale si è chiesto e ottenuto fatica, impegno, soldi e soprattutto fiducia.
Sono esempi diversi fra loro che forse chiariscono la responsabilità democratica verso l’indipendentismo diffuso e dei movimenti sociali ad esso collegati o collegabili che spesso è mancata, al di là della vita interna alle organizzazioni.
In questo senso gli indipendentisti devono uscire dallo stadio di minorità e andare verso l’adultità come ben sostiene Ivo Murgia. Finora si è invece spesso giocato a fare i furbetti, a fottere come si dice volgarmente, soprattutto sotto elezioni e le cose sono peggiorate quando qualche TV ha deciso di concedere qualche spazio mediatico in più o incoronare qualche leader o presunto tale. Ciò che è mancato è il controllo democratico e al suo posto abbiamo avuto spesso storia di sette basate sul fideismo assoluto verso il capo dove il dialogo boccheggiava e le migliori energie si impaludavano fino all’immobilismo.
Sarò franco. Non ho alcuna speranza che la conquista della democrazia così intesa possa avvenire dall’alto e nemmeno che l’utilizzo della democrazia all’interno di alcune strutture, (per fortuna non tutte sono ferme al feudalesimo politico!), possa determinare per osmosi un circolo virtuoso esteso all’intero movimento di liberazione. Le organizzazioni devono continuare a fare il loro lavoro senza cui l’indipendentismo farebbe un passo indietro e non in avanti, ma forse è necessario che si sperimenti un nuovo modo di fare opinione e aggregazione politica capace di avvicinare componenti sempre più ampie alla teoria e alla prassi dell’indipendentismo e di strutturare anche un lavoro programmatico fra le organizzazioni stesse. Nuovo ma fino a un certo punto.
Quando i rappresentanti del terzo Stato francese si ritrovarono nella sala della pallacorda perché le porte della sala Menus (dove si riunivano gli Stati Generali) erano sbarrate si dichiararono “Assemblea Nazionale”. Non avevano tutti la medesima opinione e anzi di lì a breve incominceranno a tagliarsi la testa gli uni con gli altri, dividendosi ferocemente in particolar modo quando sulla scena della rivoluzione subentreranno gli interessi vivi e materiali del proletariato urbano e dei contadini poveri e la rottura definitiva con la Monarchia. Le divisioni in quel caso non fermarono il processo rivoluzionario perché tutti agivano in una unica prospettiva unitaria basata sulla democrazia, sebbene gli scontri furono duri e drammatici.
Ecco cosa ci serve: una nostra sala della pallacorda, vale a dire un contesto dove i vari orientamenti dell’indipendentismo possano eventualmente anche scontrarsi con durezza, ma dove poche e semplici regole democratiche possano dare l’avvio al vero indipendentismo moderno, cioè quello che obbedisce alla democrazia e non ai capi bastoni, alle combriccole e al tifo da stadio.
Arriviamo così al problema dei problemi. Chi può promuovere questo percorso? In realtà tutti e nessuno. Serve trasversalità di appartenenza e di matrice e questo è un momento buono. Molti di noi hanno storie diverse ma condividiamo spesso le stesse impasse. Saremo in grado di trasformare la debolezza attuale in un punto di forza? Su questo crinale si gioca la partita e proprio in questo momento, con davanti a noi, la sala Menus sbarrata e presidiata dalle guardie armate, dobbiamo guardarci intorno e cercare la nostra sala della pallacorda.