Intervista originariamente pubblicata da Editrice Socialmente (numero 9 – Dicembre 2011).
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– Qual è il suo punto di vista di economista femminista sulla crisi attuale e le sue conseguenze?
PICCHIO – Cominciamo dagli aggettivi con i quali definirei la crisi in corso: epocale, disastrosa, drammatica. Non so come andrà a finire, questo lo dico, pur essendo generalmente ottimista, da quando è cominciata, e lo dico da storica del pensiero economico, perché è una delle crisi ricorrenti nella storia del capitalismo. La crisi è arrivata ad un punto in cui più nessuno riesce a controllarla e le grandi istituzioni internazionali sono spaventate. La bolla speculativa che ha scatenato la crisi finanziaria ha dimensioni mai viste nella storia perché si è lasciato fare agli speculatori, per le interdipendenze globali e per le moderne tecnologie informatiche. La bolla è arrivata, si dice, a venti volte il Pil mondiale e ciò significa che non esiste nessuno, istituzione o banca centrale, Banca Europea o Federal Reserve, che possa soddisfare o contenere l’ingordigia degli speculatori, che non sono altro che giocatori d’azzardo: mercanti totalmente irresponsabili. Le regole devono essere imposte a livello politico e nessuno sembra averne la volontà e la forza. Si specula direttamente sui rischi del vivere, scaricati sempre più sugli individui e sulle famiglie dato lo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare. I processi di vita reali di donne e uomini in carne ed ossa e la loro collocazione nella visione del sistema economico, a livello macro e micro, sono il centro dell’analisi economica femminista.
– Cosa bisognerebbe fare?
PICCHIO – Bisogna innanzitutto costruire un discorso teorico e politico che metta in relazione diretta, da un lato, l’irresponsabilità di speculatori finanziari, banche, istituzioni nazionali e internazionali e, dall’altro, la responsabilità storica delle donne sulla qualità effettiva delle vite dei loro familiari. Se non si coglie la tensione strutturale che si scarica all’interno dei nuclei di convivenza e la sua densità materiale, etica e relazionale, non si trova la chiave giusta di lettura della crisi e del conflitto sociale in atto. Basti vedere la Grecia. I greci stanno cercando di dimostrare che i principi fondamentali per la vita delle persone non possono cambiare perché lo dice la Banca Europea: si basano su comportamenti antropologici, sedimentati nel tempo storico, regolati da norme sociali, da cui deriva la sostenibilità del processo di riproduzione sociale che mette in grado di lavorare, vivere e convivere. Si tratta, in Grecia, come negli altri paesi europei colpiti dagli aggiustamenti strutturali, non solo di una questione di equità ma anche di una questione di efficienza economica che richiede la sostenibilità del processo di riproduzione sociale della popolazione, intesa come insieme di donne e uomini reali in relazione responsabile tra di loro nell’intero ciclo di vita.
– In che senso l’economia femminista sta producendo degli approcci innovativi?
PICCHIO – In primo luogo, evidenziando che dentro al costo normale di riproduzione sociale c’è una massa di lavoro non pagato, ormai misurata dai principali istituti nazionali di statistica, che è generalmente un po’ più grande di tutto il lavoro pagato. Un aggregato enorme, che somma l’industria, l’agricoltura, l’impiego pubblico, il lavoro autonomo, etc. Questo lavoro non può essere riallocato con un po’ di buona volontà e una migliore organizzazione dei tempi individuali. Le statistiche sull’uso del tempo consentono di vedere, con l’evidenza dei fatti, lo spessore quantitativo del lavoro non pagato – domestico e di cura- di riproduzione sociale e l’ineguaglianza di genere nella sua distribuzione. A livello di paesi industrializzati, pur con le dovute differenze, circa due terzi del lavoro domestico e di cura non pagato viene fatto dalle donne e un terzo dagli uomini. Ciò che colpisce nei dati sull’uso del tempo e sulle diseguaglianze di genere è la persistenza nel tempo e la generalità nello spazio del lavoro non pagato. Si tratta quindi non di un aggregato marginale, limitato a condizioni di arretratezza e lascito del passato ma di una delle caratteristiche strutturali del sistema economico attuale sul quale si appoggia la sostenibilità, vale a dire la riproducibilità, del sistema di produzione di merci, perché mette i lavoratori salariati in grado di lavorare e convivere. È un processo che riguarda non solo la riproduzione dei bambini (futuri lavoratori) o degli anziani (usciti dalla produzione) ma anche e soprattutto dei maschi adulti che costituiscono il soggetto sul quale si definiscono orari, salari, rischi, stress del lavoro dipendente e autonomo. Le statistiche sull’uso del tempo servono a far emergere un costo nascosto non a costruire un
monumento allo spirito di sacrificio femminile. Individuano uno spazio politico non una relazione intima. La gente in questo momento vive situazioni sempre più drammatiche che aggravano una normalità quotidiana. di continua emergenza. Pensiamo di continuare a lasciare alle donne e ai loro problemi di “conciliazione” il carico del peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, o siamo in grado di porre la questione della qualità della relazione capitalistica tra produzione di merci e riproduzione sociale
della popolazione lavoratrice come una questione strutturale e altamente politica? A mio avviso la possibilità di uscire dalla crisi con un modello di sviluppo produttivo e umano diverso e di limitarne i costi di transizione dipende proprio dal modo in cui si affronterà questa questione.
– La responsabilità delle donne cosa riguarda in particolare?
PICCHIO – Il problema non è solo che gli uomini si occupano poco dei bambini e degli anziani, ma che non si occupano di loro stessi. La vera colpa degli uomini è che in qualche modo si accontentano di una vita non soddisfacente e che scaricano e nascondono la propria naturale vulnerabilità in uno spazio intimo, nel quale esigono una grande massa di lavoro domestico e di cura per riuscire a sostenere l’attacco portato ai loro corpi e menti dal lavoro salariato. Gli uomini adulti non hanno nessuna voglia che queste questioni entrino in uno spazio politico, pubblico, hanno paura di perdere ciò che ricevono dalle donne, forse preferiscono non rendere evidente il modo con cui lo esigono. Questo è il problema, ma la divisione del lavoro attuale, pagato e non pagato, non è la soluzione, neppure per gli uomini. Se si guardano le statistiche si vede che gli uomini sono più infelici e non stanno bene, come le donne ben sanno. Ciò che opprime le donne non è la forza maschile, ma la debolezza maschile. Se gli uomini stessero bene i rapporti sarebbero molto più semplici perché ci sarebbe un’assunzione di responsabilità verso se stessi. Il problema è che se non assumono responsabilità verso se stessi, non se la assumono nemmeno verso i figli e i loro genitori anziani.
– Quale ruolo hanno giocato le massime istituzioni economiche internazionali in questa crisi e nell’affermazione dei suoi presupposti ideologici?
PICCHIO – Un ruolo decisivo. Fmi e Banca Mondiale sono stati
gli agenti degli aggiustamenti strutturali che ora vogliono imporre all’Europa. Negli ultimi decenni le crisi finanziarie sono state ricorrenti e le cure sono state disastrose sulle condizioni di vita di milioni di persone. In America Latina hanno superato, per il momento, le loro difficoltà ma ciò non va a onore dell’Fmi. In Argentina per esempio l’uscita da una crisi terribile va a onore del popolo argentino che ha sofferto moltissimo ed è riuscito a costruire uno spazio politico ed economico, che sembrava inesistente ai tecnocrati, esattamente partendo dal riconoscimento delle necessità delle condizioni di vita e praticando forme di autogestione della produzione. Su questo si è aperta una via innovativa, messa in atto pragmaticamente, se invece avessero continuato sulla via delle ricette dell’Fmi non sarebbero usciti da processi di deprivazione e impoverimento. Si deve tuttavia ricordare che
le politiche liberiste imposte dagli aggiustamenti strutturali sono state avallate da economisti famosi e onorati da premi nobel. Insegno in una facoltà di economia, e gli economisti si devono prendere le loro responsabilità rispetto ad una crisi che era annunciata ma che li mette spalle al muro, dal punto di vista teorico, rispetto a ciò che sta succedendo. Siamo di fronte ad una crisi morale dei tecnici e dei teorici perché da anni sostengono teorie che rimuovono tutti gli aspetti materiali, relazionali ed etici dai loro modelli e dai fondamenti delle teorie economiche. Il riduttivismo economico è diventato sempre più dogmatico e fondamentalista. L’homo oeconomicus è pensato senza corpo, necessità, emozioni, relazioni, responsabilità, fuori dallo spazio e dal contesto storico. Su questa astrazione senza senso si reggono l’eleganza e la determinatezza meccanica dei modelli, micro e macro. In realtà non si potrà uscire dalla crisi fino a che le teorie si baseranno su due miti: 1) i mercati ottimizzano spontaneamente l’allocazione delle risorse, 2) le donne sono infinitamente sacrificali e onnipotenti, alla fine sono sempre in grado di adattare le vite alle sempre più scarse risorse distribuite.
– In che senso la crisi attuale è anche una crisi morale?
PICCHIO – L’etica è data da regole, visioni, gerarchie di valori e la riflessione individuale e collettiva su come dobbiamo vivere precede l’allocazione delle risorse. Questo legame tra etica ed economia, e la relazione tra mezzi e fini, è stato posto con forza da Amarthya Sen, ma sta nelle fondazioni dell’economia politica classica. Non a caso Sen è il più smithiano degli economisti. Gli economisti utilitaristi ora si sono inventati l’economia della felicità, che pur di rientrare nei canoni dell’economia neoclassica parla di “beni relazionali” e non di relazioni; continuano a pensare ad agenti economici “razionalmente folli”, vale a dire fuori dalla realtà delle relazioni responsabili necessarie per affrontare la vulnerabilità umana. È la fondazione dell’economia dominante che manca di etica, perché non considera l’essere umano nella sua complessità.
– Alcuni economisti sostengono che il deficit pubblico non è il vero problema e quindi non bisogna tagliare il debito, casomai il problema è il deficit della bilancia dei pagamenti. Cosa ne pensa?
PICCHIO – Il debito non è un problema di livello e proporzioni, ma di dinamica. Ad esempio chi compra una casa chiede generalmente un mutuo superiore al reddito annuale, ma la banca non si preoccupa perché il problema non è tanto il livello del debito, quanto il rapporto con il flusso del reddito e la capacità di pagare il debito nel tempo. Quindi la negoziazione dovrebbe essere non tanto sul livello del debito, ma su come pagarlo e la distruzione della capacità di produrre reddito non è sicuramente la strategia migliore. Le attuali politiche europee che fissano il debito in modo rigido togliendo agli Stati nazionali la possibilità di manovrarlo sono pericolosissime – compreso l’obiettivo deficit zero nella Costituzione. In questo momento le crisi sono molteplici: c’è una crisi finanziaria, una crisi monetaria, c’è anche una crisi strutturale perché si stanno modificando i mercati delle merci, i loro termini di scambio a livello globale, e i processi produttivi, ma soprattutto c’è una crisi sociale. Ora, se noi continuiamo a pensare che il sociale sia a valle di tutte le trasformazioni produttive e della dinamica degli scambi e che possiamo occuparcene alla fine, se restano delle risorse, non capiamo niente del sistema reale e di come il sociale sia costituito innanzitutto dal processo di riproduzione del lavoro che è, nel sistema attuale, una merce base e, dal punto di vista dei capitalisti, astratta. Storicamente si tratta tuttavia, almeno fino ad ora, di una merce che viene prodotta se si riproducono individui in carne ed ossa definiti da un corpo-mente che storicamente sono diventati lavoratori salariati, segnati quindi da uno specifico contesto di bisogni convenzionali, relazioni, rapporti di forza, norme sociali, forme organizzative. In Smith e Marx il materialismo storico è radicato proprio nella materialità dei corpi e nella loro socialità ed emotività, si tratta quindi di un materialismo metodologico per niente riduttivo ma anzi costitutivo del metodo dell’economia politica e fortemente radicato in un tempo storico e nello spazio di un territorio dato.
– In quale direzione dovrebbe andare l’analisi economica per recuperare la dimensione sociale?
PICCHIO – Il processo di riproduzione dei lavoratori e della popolazione lavoratrice nel suo complesso non viene più visto dagli economisti come uno dei fondamentali processi strutturali. In realtà la teoria neoclassica dominante trasforma anche i processi di produzione e distribuzione del reddito prodotto in processi di scambio allocativi di scarsità relative, in base ad un’idea di valore come utilità che non ha a che vedere con costi effettivi e fisici di produzione. Si tratta di una visione del valore virtuale più che astratta, mistificante rispetto alle condizioni reali del sistema non solo perché rimuove le condizioni di vita primarie che mettono in condizione di lavorare, ma soprattutto perché non è in grado di cogliere il fatto che le nuove produttività sono basate su capacità umane complesse che hanno bisogno di essere formate in processi materiali, culturali e sociali effettivi. Non si tratta solo dell’istruzione scolastica, della formazione professionale, della ricerca universitaria, ma della formazione di senso di responsabilità, empatia, autonomia, immaginazione, sicurezza di sè, creatività, libertà. Capacità che si formano sin dalla primissima infanzia attraverso la cura materna e, possibilmente, paterna. Le nuove produttività sono legate a una umanità molto raffinata che compone molteplici dimensioni. Non a caso ora si comincia a mettere in discussione il Pil come misura della ricchezza e si cercano misure più sofisticate di qualità della vita.
– Le politiche hanno assecondato le visioni economiche prevalenti nella disattenzione per i processi di riproduzione?
PICCHIO – Credo sia necessario un taglio teorico per inquadrare le politiche, altrimenti le politiche diventano frammentate e contraddittorie. Se non mettiamo il processo di riproduzione sociale tra i processi strutturali non siamo in grado di cogliere la funzione normale della spesa pubblica per il welfare e continuiamo a trattarla come strumento di breve periodo, anticiclico, ad hoc, assistenziale, umanitario, illudendoci di poterla razionalizzare facilmente riportandola in un quadro teorico che: mitizza l’automatismo ottimizzante dei mercati, adotta la prospettiva delle imprese, nazionali e multinazionali, pensa che la speculazione sui rischi finanziari sia produzione di ricchezza e che, in ultima analisi, lo Stato sia inutile e dannoso. La storia del pensiero economico, passando quantomeno per Smith, Ricardo, Marx e Keynes aiuterebbe ad essere più realistici e meno ottimisti.
– Può ricostruire questa involuzione del pensiero economico?
PICCHIO – Nelle fondazioni dell’economia classica l’oggetto della scienza era il rapporto individuo – società, un individuo che agiva nel mercato e una società segnata da un capitalismo produttivo di sovrappiù. In questa economia di produzione di merci si andava affermando un nuovo patto sociale, esposto per la prima volta in modo sistematico da Adam Smith nella seconda metà del ’700. Un patto che prevedeva libertà di scambi in un contesto di regole e convenzioni, individui multidimensionali e responsabili. Il nuovo patto sociale era proposto in contrapposizione al dirigismo statale mercantilista, che non si basava sull’eliminazione della diseguaglianza tra classi – vera chiave dello sviluppo capitalistico – ma sulle condizioni di una maggiore equità. La produzione di un sovrappiù, la sua accumulazione e l’aumento della produttività, dato dalla divisione del lavoro nelle manifatture, potevano permettere anche alle classi più povere di avere accesso a condizioni di vita migliori. Migliori ma non più sicure, perché ai fondatori del pensiero economico classico era chiaro che l’insicurezza dell’accesso ai beni di sussistenza era la vera chiave del comando sul lavoro. È interessante notare che nell’approccio del sovrappiù, seguito da Smith, Ricardo, Marx, i beni convenzionalmente necessari ad un sussistenza dignitosa e sostenibile sono considerati consumo necessario alla produzione, vale a dire: capitale. Inoltre, nella relazione tra profitto e tutto ciò che va a sostenere e migliorare le condizioni di vita della popolazione lavoratrice nel suo complesso si colloca una profonda tensione sociale inerente al sistema di lavoro salariato, che nella sua dinamica strutturale porta a crisi ricorrenti di “povertà nell’abbondanza”. In presenza di abbondanza di risorse e di fondi da investire il processo di accumulazione si blocca per mancanza di domanda effettiva e per una riduzione del tasso normale di profitto.
– Quali sono i punti critici di tale meccanismo?
PICCHIO – Nel quadro analitico degli economisti classici il conflitto fra profitto e condizioni di vita dei lavoratori produttivi e delle loro famiglie è posto al centro dell’analisi del sistema economico come questione di efficienza. Inoltre, se oltre ai salari dei lavoratori produttivi (di sovrappiù) si aggiungono i salari dei lavoratori improduttivi e l’assistenza pubblica, tale conflitto si gioca anche al di fuori del processo produttivo e coinvolge le condizioni di vita di tutta la popolazione lavoratrice per una questione di equità, di convenzioni sociali e, soprattutto, di rapporti di forza tra classi. Esiste un salario che è produttivo e una parte di sussistenza
della popolazione che non è produttiva e quindi rientra nel sovrappiù. Per Smith, Ricardo e Marx il valore del lavoro è il costo normale di riproduzione sociale dei lavoratori e dei loro figli (futura forza lavoro): è quindi il valore delle vite dei lavoratori il riconoscimento che condizioni di vita socialmente adeguate sono un input materiale e sociale necessario per essere messi in grado di lavorare. Per questo elemento di necessità umane e di socialità il prezzo della merce lavoro, pur mantenendo analogie con i prezzi delle altre merci, viene determinato separatamente e precedentemente alla determinazione del sistema dei prezzi relativi. Nel capitalismo il lavoro è una merce, ma rimane sempre una merce umana e sulla definizione politica, sociale, antropologica della sua umanità si gioca il vero conflitto di classe.
– Si può quindi dire che i rapporti di forza contano…
PICCHIO – Certo, i rapporti di forza sono tuttavia dati storicamente. In tal senso è importante distinguere tra azioni di alcune sezioni della popolazione lavoratrice che negoziano il salario in base alla loro produttività e le azioni dell’intera popolazione che nel suo insieme negozia necessità, benessere, responsabilità e dignità per tutti e tutte. I risultati e le forme di lotta sono molto diversi. Come storica del pensiero, potrei ripercorrere l’introduzione dell’idea di salario come produttività e equilibrio tra domanda e offerta. Smith e Ricardo e Marx si occupavano di prezzo naturale del lavoro inteso come il costo normale di riproduzione sociale dei lavoratori e dei loro figli. In questo caso il monte salari che andava ai lavoratori dipendeva da bisogni, convenzioni e abitudini sociali e dalle tecniche che fissavano il rapporto prodotto/quantità lavoro. A un certo punto, alla morte di Ricardo, si è cominciato a ragionare in termini di un fondo salari dato esogenamente dai capitalisti in base alle loro decisioni di investire in capitale variabile, assumendo una forma di sistematica sostituzione tra lavoro vivo e capitale fisso, una relazione inversa tra salario e occupazione e un trade off tra salari e spesa per l’assistenza pubblica, in nome di una scarsità di fondi predeterminata e non spiegata analiticamente. Non a caso Marx è durissimo contro i teorici del fondo salari (Torrens, McCulloch, J.S. Mill). In Salario, prezzo e profitto polemizza con il cittadino Weston,
un sindacalista, che sosteneva che se crescono i salari crescono automaticamente i prezzi e quindi non c’è spazio per un’azione a favore dei salari reali. Nelle sue argomentazioni Marx riprende la teoria del salario come prezzo naturale del lavoro, ricordando che per sapere se un salario è alto o basso bisogna chiedersi se è adeguato o no alle condizioni di vita socialmente adeguate dei lavoratori e che queste sono oggetto di negoziazione politica, non di una determinatezza oggettiva e meccanica. I sacrifici non sono imposti dalla scarsità naturale delle risorse ma da una distribuzione del reddito istituzionale e segnata dai rapporti di forza, non da una legge di natura. Queste cose la sinistra se le è scordate e cade sempre nella trappola della concertazione!
– Quali sono gli aspetti fondamentali di questa “dimenticanza”?
PICCHIO – La sinistra è intrappolata dentro una logica di mercato del lavoro capitalista vista in una prospettiva degli interessi dell’impresa, in base alla quale il salario è produttività e i costi di riproduzione sociale del lavoro sono un problema e una responsabilità del lavoratore da scaricare nel nucleo domestico. Lo Stato può intervenire abbondantemente a sostegno delle imprese ma non a sostegno della sostenibilità e della qualità delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice. La disoccupazione è causata dalla rigidità del mercato della merce lavoro e la rigidità non è altro che la complessità della vita umana e della rete delle responsabilità di cura. Le condizioni di vita devono stare fuori dal mercato del lavoro e possono rientrare solo come assistenza umanitaria ai poveri, non come necessità produttiva e diritto dei lavoratori ad una vita dignitosa.
– A cosa pensa, riferendosi ai rischi di ridurre il welfare all’umanitarismo, e all’illusorietà di tale riduzione?
PICCHIO – Io ho studiato la storia britannica delle Poor Laws, in particolare due tappe importanti. Una è la legge dei poveri del 1834. In questa legge, che applica le teorie del fondo salari di Senior, si sostiene che il mercato del lavoro deve essere un mercato libero, di domanda e offerta, quindi non si possono dare sussidi a lavoratori adulti che devono essere costretti ad entrare nel mercato del lavoro. Se un adulto chiedeva assistenza pubblica, doveva essere internato nelle case dei poveri con tutta la sua famiglia, perdere i diritti civili e essere esposto ad uno stigma sociale molto forte. L’assistenza pubblica era considerata residuale e destinata a categorie specifiche: i pazzi, i malati, inabili al lavoro e donne sole, per lo più vedove, con figli. Dopo settanta anni di applicazione di questa legge la spesa pubblica era esplosa per la sanità, il latte ai bambini, le carceri, e la pressione delle vite di gente disperata in carne ed ossa sulle amministrazioni locali. Si nomina quindi una commissione che porterà al Poor Law Report del 1909 e a un rapporto di minoranza che poneva con forza la questione che i lavoratori dovevano uscire dall’assistenza ai poveri, perché erano disoccupati involontari che non dovevano essere trattati come persone immeritevoli; era pertanto necessario introdurre nuove politiche e programmi di lavori pubblici che aiutassero il mercato del lavoro, perché la disoccupazione era strutturale.
– Come si arriva alle politiche keynesiane, e al loro successivo abbandono?
PICCHIO – Dopo le tragedie di due guerre mondiali si arriva a Beveridge che, riprendendo il rapporto del 1909, dice: “Abbiamo finanziato la guerra, possiamo finanziare la pace”. E finanziare la pace vuol dire soprattutto istruzione, sanità e previdenza pubblica. In questo contesto si inseriscono le politiche keynesiane e la nostra storia recente. Le politiche keynesiane dagli anni Cinquanta agli anni Settanta sono state politiche di spesa per l’istruzione, la salute, le pensioni e la sicurezza, che hanno sedimentato nuove condizioni di vita argomentandole poi anche in termini di diritti umani. Si è sedimentato quindi un livello di salario sociale più stabile che sposta la distribuzione del reddito tra salari e profitti a favore dei lavoratori. Questo spostamento provoca una reazione da parte delle classi proprietarie. Dalla fine degli anni Settanta siamo in pieno periodo reazionario: i terribili anni Ottanta di Reagan e Thatcher. L’obiettivo del conflitto e ciò che si deve mortificare, per limiti politici e non per scarsità di risorse, sono le condizioni di vita della popolazione lavoratrice e le loro accresciute sicurezze.
– Nella sua visione il neoliberismo si è quindi risolto in un attacco alle condizioni di vita…
PICCHIO – Il cuore del problema attuale non è la crisi monetaria, né la crisi dei mercati, ma la crisi sociale. La sinistra deve essere in grado di rendere visibile che il conflitto è lì. Perché è lì che in ultima analisi si sta scaricando l’attacco. Certo c’è anche una crisi fiscale, monetaria, strutturale dei mercati, ma il vero obiettivo che ha innescato la reazione sta nella distribuzione e nell’impatto del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice sulla distribuzione tra profitti e salari. Infatti sono state le imprese le prime ad attaccare pensioni, sanità pubblica, piena occupazione. Reagan, e chi lo ha seguito, aveva dietro le grandi corporazioni e faceva i loro interessi.
– Quali sono i primi passi di una politica di sinistra nella direzione da lei auspicata?
PICCHIO – Da tempo il mio riferimento di senso e razionalità economica è nell’economia femminista e nei suoi networks internazionali. Particolarmente importante è la macroeconomia femminista che estende il circuito di produzione, distribuzione e circolazione del reddito a comprendere anche il processo di riproduzione sociale e il lavoro non pagato. In questo contesto analitico diventa chiaro che le politiche devono collegare le politiche del lavoro con le politiche sociali, componente essenziale delle condizioni di sostenibilità delle vite e del sistema economico. Ci vogliono interventi diretti non solo a sostegno dei mercati ma anche e soprattutto a sostegno della qualità delle condizioni di vita effettive. I servizi alla persona sono infrastrutture sociali necessarie quanto i ponti e le strade, per altro hanno un forte moltiplicatore occupazionale e un diretto impatto sul benessere con effetti di moltiplicatore per la rete delle relazioni individuali. Ad esempio i buoni servizi all’infanzia impattano sul benessere dei bambini, sulla capacità di entrare e rimanere nel mercato del lavoro delle madri, sulla produttività dei futuri lavoratori, sulla coesione e inclusione sociale, etc.
– Quali sono le questioni più urgenti?
PICCHIO – C’è una questione drammatica che riguarda gli anziani. In una prospettiva segnata dagli interessi di impresa sono un sovrappiù e le loro pensioni sono una spesa non produttiva sottratta all’accumulazione. Mentre per i bambini possiamo argomentare che sono la forza lavoro del futuro, e sulla salute si può dire che serve alla produttività dei lavoratori, nel caso degli anziani è chiaro che si tratta di un assorbimento di sovrappiù da parte della popolazione lavoratrice e questo per le imprese è insopportabile. Può essere accettabile solo se diventa un mercato che offre occasioni di profitto o di rendita finanziaria. Ciò significa che una vita dignitosa nella vecchiaia deve dipendere dalla capacità di pagare e deve essere strutturalmente a rischio. La stessa logica speculativa sta portando alla privatizzazione, in corso a livello globale, dell’istruzione e della sanità.
– Occorre poi anche formare nuove leve di economisti e anche l’università ha le sue responsabilità. In qualche modo tutti (istituzioni, sindacato) siamo coinvolti in questo. Non possiamo chiamare in causa solo i grandi organismi internazionali. Non crede?
PICCHIO – Io credo che rendere visibile la catena delle responsabilità sia un lavoro da fare a tutti i livelli. Le irresponsabilità verso i risultati effettivi sulla vita di persone reali sono molto pervasive in ogni istituzione. Come femminista sono interessata a rendere esplicita la catena delle responsabilità, pubbliche e private, altrimenti la responsabilità finale della qualità delle condizioni di vita continua a ricadere sulle donne e resta isolata in uno spazio domestico.
– La facoltà di Economia a Modena era nata, negli anni Settanta, con un progetto di forte rinnovamento, che ora si fa fatica a riconoscere. Come mai?
PICCHIO – La Facoltà di Economia di Modena ha condiviso la perdita di prospettive alternative che ha coinvolto la sinistra e anche il sindacato negli ultimi decenni. E qualcuno si riconosce in quel che è successo dopo il Partito Comunista? Non sono mai stata iscritta al partito comunista ma, se chi è venuto dopo il Partito Comunista si fosse posto il problema di una seria riflessione sull’esperienza socialista e comunista, coltivando uno spirito critico insieme ad un sano orgoglio per ciò che era stato fatto, ad esempio, in Emilia, avrebbe aiutato una riflessione collettiva su ciò che si doveva ancora fare e su ciò che si doveva evitare. La facoltà di Economia di Modena era nata sulla base di una critica teorica e di studio di politiche economiche progressiste: ma la storia è andata da un’altra parte. In questa crisi generale, la facoltà ha scelto di puntare
sulla qualità dell’insegnamento e dei servizi agli studenti, ad esempio una splendida biblioteca. Senz’altro non si pone più il problema di avanzare proposte radicali in materia di politiche del lavoro. Il problema tuttavia non sono le vicende della facoltà quanto capire come mai ci sia stato un complessivo slittamento davanti al modello liberista scambiato, a livello internazionale, per una chiave di progresso.
– Il nostro tentativo, con le attività dell’Ires Emilia-Romagna e di questa rivista, è anche quello di contribuire a ricostruire i fili di un dialogo tra sindacato, mondo della ricerca e varie anime della sinistra…
PICCHIO – Allora, possiamo fare questo sforzo? Possiamo pensare che tra questi fili ci sia la necessità di riportare le condizioni di vita a un livello pubblico, conflittuale, visibile, che non sia scaricato solo negli spazi domestici, intimi?
– Cosa ha ricavato in particolare dal pensiero femminista?
PICCHIO – C’è una tensione molto moderna tra individuo e società che non si può leggere come nel Novecento all’interno di visioni collettiviste e statali. Ciò è particolarmente importante rispetto al tema della riproduzione. Io, da un lato, inserisco il lavoro non pagato domestico e di cura all’interno del discorso del lavoro. Faccio questo per sottrarlo al discorso della natura femminile e al romanticismo del dono. Ciò significa individuare anche un elemento di comando e di sfruttamento senz’altro presente nell’uso personale e sistemico della grande massa del lavoro non pagato, trattato appunto come mezzo di produzione e di riproduzione sociale. Ho sottolineato finora soprattutto la dimensione quantitativa ma c’è anche una ancor più importante dimensione qualitativa, relazionale ed etica che caratterizza il lavoro di riproduzione familiare. Se a questa quantità di lavoro e alla sua qualità si attribuissero la dovuta importanza e capacità trasformativa sul senso del lavoro, potrebbe diventare un’importante leva di cambiamento sistemico, non perché ci può portare automaticamente in un mondo liberato, ma perché potrebbe aiutare ad individuare le linee di tensione su cui agire il conflitto sia di classe che di sesso. La domanda “come dobbiamo vivere”, potrebbe cominciare ad essere posta in un contesto di relazioni individuali e pubbliche di soggetti che si assumono la responsabilità della sostenibilità e qualità delle condizioni di vita di donne e uomini, nel tempo quotidiano e nel ciclo di vita. Questa assunzione pubblica e condivisa di responsabilità è necessaria per liberare le relazioni intime dalle tensioni inerenti a problemi strutturali e sistemici e costruire un effettivo spazio di libertà. Questo spazio non può essere statalizzato e/o commercializzato e cura e sessualità devono essere rispettate come esercizio di libertà, a partire dal riconoscimento della libertà delle donne.
– Cosa pensa del movimento “Se non ora, quando?” e dell’impegno politico delle donne in questa fase?
PICCHIO – “Se non ora quando” è stato un evento enorme, io ero all’estero, e ho visto l’interesse che a quell’evento è stato dedicato da tutti i telegiornali internazionali. Anche Siena è stato un secondo passaggio molto importante ed efficace a mettere in comunicazione diverse anime del movimento.
– Possono nella crisi essere utili anche i bilanci di genere?
PICCHIO – Possono essere utili secondo me come strumento di riflessione sugli obiettivi e le responsabilità pubbliche e di partecipazione ad una discussione pubblica sul senso della qualità della vita individuale e collettiva, se si intrecciano nella lettura dei bilanci pubblici due chiavi, quella delle pari opportunità e quella della riflessione sul benessere di donne e uomini come individui complessi, collocati in un contesto sociale e territoriale, e segnati da molte diversità nei modi in cui compongono le loro vite. Quando si è concretizzata l’opportunità di curare il bilancio di genere della Regione Emilia-Romagna ci è venuta l’idea di usare Sen e l’approccio delle capacità. Invece di andare a vedere l’uguaglianza fra uomini e donne su cose specifiche, e quindi fare il bilancio di genere come sempre mappando tutte le diseguaglianze e alla fine, in fondo, continuare ad essere abbastanza chiusi dentro alla questione di “quali politiche per le donne”, abbiamo usato come chiave il benessere e lo spazio multidimensionale del benessere. Il bilancio è un documento politico, che riassume la distribuzione delle risorse e l’insieme delle politiche: invece di analizzare l’impatto dei vari servizi
solo su diseguaglianze specifiche tra uomini e donne abbiamo spostato l’ottica dall’analisi dei mezzi all’impatto sulle vite, riportando il bilancio all’obiettivo pubblico che è il benessere. Questa esperienza è nata in Emilia, è poi stata fatta per la
Regione Lazio, la Regione Piemonte, la Provincia di Roma, la Provincia di Bologna: anche all’estero si sono molto interessati.
– Cosa si può fare adesso per il welfare, in particolare rispetto alla questione di un nuovo rapporto pubblico-privato?
PICCHIO – Intanto secondo me varrebbe la pena di dire quale privato, e perché privato. Una cosa è che il privato ci metta dell’organizzazione, altra cosa è che il pubblico mantenga molto stretta la finalità del benessere pubblico. Non è detto che il benessere debba essere sempre percorso con tante risorse, può essere percorso anche con poche risorse. In una casa povera non è detto che il figlio sia più infelice che in una casa ricca, perché non è importante l’abbondanza dei mezzi, ma il senso di ciò che fai, e l’aiuto che ricevi in ciò che fai, il fatto che non sei solo. Quindi io credo, pensando anche agli indignati, che sia importante il percorso non solo di come usciremo dalla crisi, ma anche di come la percorreremo. Gli indignati sono interessanti non tanto perché sono duecentomila in piazza, ma perché sono creativi, socializzanti, affettuosi fra di loro, solidali, stanno costruendo capacità di una buona vita politica che gli consente di resistere. Questa cosa è essenziale. Non pensano al partito e il loro linguaggio mi ricorda il movimento femminista, perché hanno molte donne al loro interno e per la loro mancanza di leader che crea difficoltà alla polizia. Secondo me è proprio questo il momento di dire che le politiche devono lavorare sulla qualità del vivere e assumersi la responsabilità dei loro risultati sul piano delle vite effettive. L’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica è data dalla sua equità, vale a dire dalla distribuzione di risorse adeguate alle responsabilità assunte in termini di condizioni di vita sostenibili
e dignitose per tutti e tutte.
– L’Ires ha fatto una ricerca sugli aiuti di cura informali per gli anziani, dati e ricevuti, su incarico dello Spi. Tra le questioni interessanti viene fuori una domanda: come fai a ridurre a fattore economico il piacere che ha un nonno di stare con il nipote?
PICCHIO – Il piacere può essere parte del lavoro, perfino per un operaio alla catena, ma ciò non significa che non sia lavoro o che non debba essere pagato. Ciò che caratterizza il lavoro non è la mancanza di piacere ma la presenza di comando e costrizione e la sua necessità di mezzo di accesso a condizioni di vita decenti.
– Nella nostra regione la condizione delle donne è stata alleggerita da un sistema pubblico che si è fatto carico dei servizi in misura maggiore rispetto ad altri contesti. Cosa ne pensa?
PICCHIO – L’Emilia ha un patto sociale molto avanzato costruito sull’emancipazione delle donne, si pensi alla storia degli asili emiliani che io racconto sempre come una storia di donne che avevano capito che il fatto che i bambini stessero bene all’asilo era una fondamentale questione di classe. Quello stare bene dei bambini era inteso in un approccio multidimensionale al benessere, non c’era bisogno di Sen, Smith o Aristotele: bastava l’esperienza di vita delle donne. La loro responsabilità era dire ciò che era bene per i bambini, e garantire che nello spazio pubblico tutti i bambini avessero diritto al benessere nelle sue varie dimensioni, materiali, affettive, creative e di sicurezza. Su questo le donne dell’Udi che hanno portato avanti la battaglia si giocavano la loro esperienza politica di lotta, un po’ perché escluse da altri spazi politici, un po’perché su quello agivano la loro immaginazione politica. Se ben ricordo, cadevano i governi sulla questione degli asili pubblici. L’Emilia era diventata un riferimento nazionale su di un punto dirimente perché aveva una visione e aveva dei soggetti politici che la agivano in modo chiaro. Adesso non c’è più visione, non c’è più una prospettiva chiara, si è accettato che la prospettiva sia quella delle imprese prese come soggetto di efficienza. Bisogna chiarire bene la prospettiva, e cioè da che parte stai e che realtà vedi. Le politiche poi dovranno essere pensate nel dettaglio e attuate con competenza e rigore. Non è possibile lasciare che le risorse pubbliche siano usate a fini di interessi privati, gli obiettivi legati al benessere della popolazione sono troppo impegnativi per lasciare che si dilapidino risorse in clientelismi e opportunismi privati.
*Antonella Picchio insegna Storia del pensiero economico presso la Facoltà di Economia Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa di teoria dei salari negli economisti classici, di bilanci di genere in approccio sviluppo umano. È nota a livello internazionale per i suoi studi su riproduzione sociale e lavoro non pagato. Ha studiato in varie università in Inghilterra e Stati uniti e ha preso un Ph. D presso l’università di Cambridge, UK. È militante nel movimento femminista dall’inizio degli anni Settanta.